Che cos’è l’Aura

In greco e in latino si parla del fascino come fosse una brezza, un’aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce. Tuttora di un essere straordinario diciamo è un turbine, fa scintille, come Omero del suo eroe proteso senz’armi sugli spalti, nel XVIII nell’Iliade: sprigiona dal corpo l’ardore e dalla fronte una luce che sale fino in cielo. Come la gloria del guerriero, splende la bellezza femminile.

In una poesia che intitolò Verginale, Pound descrive l’abbraccio d’una donna trasfigurata, soffusa d’aura:

Via, via! Andatevene! L’ho appena lasciata.

Che non guasti questo involucro un minor fulgore,

L’aria che mi avvolge ha una lievità nuova.

Esili le sue braccia, ma mi hanno stretto

Lasciandomi ammantato di un’eterica garza,

Come d’erbe soavi, come di chiarità sottile.

Oh la magia che accanto a lei ho assorbito!

Antaura, l’opposto dell’aura, era in Grecia il demone del malessere e dell’emicrania. Radicate nel fondo della mente sono le metafore della brezza e dell’alone luminoso; già sulle pareti delle caverne appaiono esseri divini cinti d’un’aureola, sia nella pittura indù che nella cinese alle creature soprannaturali fluttuano la veste e la chioma e un alone le avvolge. Nella pittura sacra dell’Occidente si perpetuano il vortice di vento, l’aureola a corona del capo o la mandorla attorno al corpo intero. In tutti i tempi e luoghi avanzano in un turbine i figli del Sole e il loro padre celeste li irraggia. Al Cristo sul Tabor splendette la faccia come un sole e i suoi vestiti abbagliarono come neve. Così forte è la carica simbolica dell’aureola, che i romantici facevano escursioni faticose sul Brocken, la montagna delle streghe, per contemplare la loro figura che al crepuscolo, su quelle pendici, si proiettava lucente e trasfigurata nelle nuvole. Quando nel barbaglio della spiaggia la peluria d’un corpo controluce genera un alone color del miele, si rimane incantati, come fosse una rivelazione. Scriveva il provenzale Arnaut Daniel che il nudo dell’amata aureolato contro il lume della lampada era un’anticipazione delle gioie per le quali pregava il Cristo risorto. Tanto ci incanta la raggiera dorata d’un’aura, nella luce incerta della montagna, sulla spiaggia assolata o nell’alcova notturna!

«Aura» per tutto l’Ottocento è una parola che sale facilmente alle labbra, si applica a nuovi usi con piacere e sollecitudine: un trattato del 1836 attribuisce all’aura del seme la fecondazione, aura è denominato l’effluvio di punte metalliche cariche di elettricità, lo stordimento che precede l’attacco epilettico e per estensione il delizioso smarrimento e la goduta paura che annunciano la possessione nella macumba e nel vudu.

Di poi «aura» è diventata una parola desueta, ed è avvenuto repentinamente, poiché ci si è accorti che oggi si vive fra persone e cose in serie, che per antonomasia non irradiano nulla; sottili mortificazioni, inesorabili appiattimenti spengono i luoghi e la gente. Ormai manca da noi l’occasione di usare la parola, che subito cessa però di suonare aulica e vaga allorquando, in rari luoghi illesi dell’Oriente, un’aura ci viene incontro in tutta la sua forza. Ancora accade: nelle più remote campagne dell’India, fra i prati ondosi color smeraldo, accanto agli stagni di ninfee, l’intensità degli sguardi stordisce; quando nelle profumate serpentine dei mercati persiani transitano tintinnando, decorate come baldacchini, le nomadi, si resta abbagliati dai loro occhi dove trema il riverbero del deserto. Si trasale, noi che abbiamo sensi appannati dal diuturno grigiore: ecco che cosa intendevano i Romani quando parlavano di luoghi o di persone «geniali», i Greci quando dicevano «demònici». Su incontri come questi splende un’aura perché entra in gioco un archetipo che ci è in qualche modo già noto. Se la Dorina, il Prato Paradisiaco, il Mercato delle Spezie e delle Droghe, l’Apparizione dell’Errante non ce li recassimo dentro, se già non li avessimo intravisti in sogni dimenticati, non trasaliremmo vedendoli (anzi: riconoscendoli) nella veglia. Che prima di averne esperienza già la mente sia improntata agli archetipi della vita, si scopre osservando un cervo volante che si scava una tana: di dimensioni esattamente tali da starci con le mandibole che ancora deve sviluppare, come se già le avesse viste e misurate. I cuccioli sdentati già fanno l’atto di sbranare: che eccitazione il primo morso, sarà un’esperienza più che nota, una reviviscenza. La sovrapposizione d’un archetipo alla percezione, la rispondenza della realtà esterna ad un segreto interiore suscita l’aura.

Chi abbia consuetudine con la propria intimità, scorge le aure nel mondo esterno; chi si ignora, chi non abbia mai avuto un sogno fatidico, può passare accanto ad esse e neanche voltarsi. E vera anche l’inversa: di aure si nutre la vita interiore. Chi mai non ne incontri, non visiti mai un luogo geniale, non meravigli di esseri demònici, diverrà arido e inquieto, in attesa non sa nemmeno lui di che cosa, mendicherà emozioni, chiederà ebbrezza, meraviglia a comando all’alcool o alla droga. Un’esistenza interiore felice è un costante rimembrare gl’incontri con aure nella propria esperienza, se si è individui; nella vita della comunità, se si è creature di una stirpe.

Preghiera per molti popoli è il ricordo di aure, epifanie, glorie nella loro storia; così sono tessute le orazioni bibliche. Per un Pueblo americano pregare significa evocare via via l’emersione della sua gente dal mondo primordiale «quando tutto era verde e rugiadoso», e quindi il succedersi dei momenti fatali fino a oggi; quando un giovane prega un anziano di dargli udienza, rammenta l’origine dei tempi, la storia del popolo, nella quale innesta la vicenda della sua famiglia, per concludere infine: «ed ecco, io vi sto dinanzi».

Che senso avrebbe «pregare» così in Occidente?

Perché sgranare il rosario delle aure passate, quando il presente ne è spoglio e perfino ignaro? Più che altrove se ne resta allibiti in Italia. Nel Sette e nell’Ottocento la perlustravano in cerca di aure i giovani signori del Nord fuggendo le loro terre desolate da cupi Riformatori, dal Senso Comune poi e infine sconciate dalle manifatture. Il Grand Tour toccava i luoghi dove i lettori di Gibbon amanti dei poeti latini, restavano ammaliati. Dai ruderi solitari ma anche dai giardini e palazzi rinascimentali sprigionavano antichissime aure, saturnie o gioviali, mercuriali, veneree, faunesche. Spontanei cori e balli s’improvvisavano sulla spianata del Pincio o sulle rive di Posillipo; ad un convergere di antichi magnetismi i corpi ancora sensibili degl’Italiani rispondevano, come diceva Boccaccio, «caldi di festa, di cibo, d’amore». Alle risonanze delle rovine e dei paesaggi, dava corpo, infondeva nuova vita il rituale delle chiese, dove si piangeva sotto altro nome Attide e sotto diverso nome si invocava Iside regina della notte e delle rose.

L’Unità e due guerre mondiali spensero le aure d’Italia. Ma ancora all’inizio del secolo Henry James poteva immaginare (in La principessa Casamassima) un terrorista dell’Internazionale che alla vigilia d’un attentato visitava Venezia e l’aura lo convertiva: piuttosto che uccidere, si uccideva, semplicemente perché sopraffatto dalla delicatezza, dall’incanto, dalla gloria del luogo.

Testo tratto dall’opera di Elémire Zolla Aure: i luoghi e i riti, Marsilio, Venezia 1985, 2003.

Elémire Zolla (Torino, 9 luglio 1926 – Montepulciano, 29 maggio 2002) è stato uno scrittore, filosofo e storico delle religioni italiano, conoscitore di dottrine esoteriche e studioso di mistica occidentale e orientale.