Il mito e il sogno

Quando ascoltiamo con divertito interesse le formule magiche bisbigliate da un variopinto stregone congolese, o leggiamo con raffinato compiacimento una inadeguata traduzione degli aforismi del mistico Lao-tze, o ci sforziamo di penetrare nei tortuosi meandri di un concetto filosofico di Tomaso d’Aquino, o cogliamo all’improvviso il chiarissimo significato di una bizzarra favola eschimese, non facciamo che riudire o rileggere lo stesso, proteiforme, eppure straordinariamente identico racconto, il quale inoltre ci lascia intuire ogni volta, con provocante pertinacia, la potenziale esistenza di infiniti altri racconti che non conosceremo mai.
I miti sono fioriti tra gli uomini in tutti i tempi, in tutte le regioni della terra, ed al loro vivificante afflato si deve tutto ciò che l’attività fisica e intellettuale dell’uomo ha prodotto. Né sarebbe esagerato affermare che le inesauribili energie del cosmo si manifestano nella cultura umana proprio attraverso il mito. Le religioni, le filosofie, le arti, le forme sociali dell’uomo primitivo e storico, le scoperte scientifiche e tecniche, gli stessi sogni che popolano il sonno, scaturiscono indistintamente dalla fonte magica del mito.
Questa singolare capacità di raggiungere e stimolare i più profondi centri creativi è peraltro insita anche nella più semplice favola infantile — così come il profumo dell’oceano è contenuto in una minuscola goccia o l’intero mistero della vita nell’uovo di una mosca. Infatti, i simboli della mitologia non si fabbricano, non si possono inventare, controllare, o abolire per sempre: sono produzioni spontanee della psiche e ciascuno ne conserva intatto il potere germinativo.
Qual è il segreto di queste immagini eterne? Da quali abissi della mente umana scaturiscono? Perché le mitologie sono ovunque le stesse, anche se rivestite di forme diverse? E che cosa ci insegnano?
Oggi molte scienze ci soccorrono nello scioglimento di questo enigma. Gli archeologi esplorano le rovine dell’Iraq, dell’Honan, di Creta e dello Yucatan. Gli etnologi interrogano gli Ostiak del fiume Ob, i Boobi dell’isola Fernando Po. Gli orientalisti ci hanno di recente svelato il significato degli scritti sacri dell’Oriente e delle fonti pre-ebraiche delle nostre Sacre Scritture. E frattanto un altro stuolo di studiosi, continuando le ricerche iniziate nel secolo scorso nel campo della psicologia etnica, ha cercato di stabilire le basi psicologiche del linguaggio, dei miti, delle religioni, dello sviluppo artistico e dei codici morali dei popoli.
Le rivelazioni più straordinarie ci sono state tuttavia offerte dalla psichiatria. I vigorosi e rivoluzionari trattati degli psicoanalisti sono divenuti testi indispensabili al mitologo; per quanto scettici possano lasciarci talune dettagliate e persino contraddittorie interpretazioni di casi e problemi particolari, Freud, Jung ed i loro seguaci ci hanno fornito la irrefutabile dimostrazione che la logica, gli eroi e i fatti del mito sopravvivono nel tempo presente.
In mancanza di una effettiva mitologia generale, ciascuno di noi possiede il proprio personale, intimo, elementare e tuttavia potente pantheon di sogni. In questo stesso momento, l’ultima incarnazione di Edipo, i moderni protagonisti della favola della Bella e la Bestia, attendono all’angolo della Quarantaduesima Strada con la Quinta Avenue che il semaforo cambi colore.
“Ho sognato,” scrisse un giovane americano al redattore di una rubrica, “che stavo riparando il tetto della nostra casa. All’improvviso udii la voce di mio padre che mi chiamava dal basso. Mi voltai di scatto per udirlo meglio e, nel volgermi, il martello mi sfuggi di mano, rotolò lungo la falda del tetto e scomparve oltre il cornicione. Udii un rumore sordo, come di un corpo che cade. Spaventatissimo, mi precipitai giù dalla scala a pioli. Mio padre giaceva esanime al suolo, il capo imbrattato di sangue. Preso dalla disperazione, mi misi a invocare mia madre fra i singhiozzi. Ella usci dalla casa e mi abbracciò. ‘Non disperarti, figliolo, è stato un incidente,’ mi disse. ‘So che tu avrai cura di me, anche s’egli se n’è andato.’ Mentre mia madre mi baciava mi destai. Ho ventitré anni e sono il loro figlio maggiore. Da un anno vivo separato da mia moglie; non riuscivamo ad andare d’accordo. Voglio molto bene ai miei genitori e non ho mai avuto alcun contrasto con mio padre, benché egli continui ad insistere perché ritorni a vivere con mia moglie, mentre io so che non potrei essere felice con lei e perciò non lo farò mai.
Il sogno di questo marito fallito rivela con straordinaria chiarezza com’egli, anziché proiettare le proprie energie spirituali verso l’amore ed i problemi del matrimonio, sia rimasto fermo, nei segreti recessi della mente, alla situazione drammatica, divenuta ridicolmente anacronistica, della sua prima ed unica esperienza emotiva, cioè al tragicomico triangolo dell’età nipiologica, in cui il figlio è rivale del padre nell’amore per la madre. A quanto sembra, i caratteri più costanti della psiche umana sono quelli derivanti dal fatto che, fra tutti gli animali, l’uomo è quello che rimane più a lungo al seno della madre. L’uomo viene alla luce troppo presto, quando è ancora incompleto e inabile ad affrontare la vita. Sua unica difesa contro un universo pieno di pericoli è dunque la madre, la cui protezione fornisce all’infante un prolungamento del periodo intrauterino. Questa dipendenza assoluta del figlio dalla madre fa si che essi costituiscano per alcuni mesi, dopo la catastrofe della nascita, una unità dualistica non solo fisica ma anche psicologica. Ogni prolungata assenza della madre produce nell’infante una tensione e dei conseguenti impulsi aggressivi; allo stesso modo, quando la madre è costretta a limitare la libertà del bambino, si sviluppano in lui delle reazioni aggressive.

 

 

L’oggetto della sua avversione si identifica così con l’oggetto del suo amore ed il suo primo ideale (che perdurerà nel suo inconscio come rappresentazione fondamentale della felicità, della verità, della bellezza e della perfezione) è costituito dall’unità dualistica della Madonna col Figlio. Il povero padre rappresenta invece per l’infante l’intruso che per primo viene a turbare la beatitudine di questa riaffermazione terrena dell’eccellenza dello stato embrionale, e perciò viene considerato all’inizio come un nemico. Su di lui viene dislocata la carica psichica rivolta in origine contro la madre “cattiva” ο assente, mentre questa continua ad essere l’oggetto della carica affettiva legata alla rappresentazione della madre “buona,” vicina, nutrice e protettrice. Questa fatale distribuzione infantile di impulsi erotici (libido) e di impulsi di morte (destrudo) costituisce la base dell’ormai celebre complesso di Edipo, nel quale cinquant’anni fa Sigmund Freud riconobbe l’origine della nostra incapacità a comportarci, da adulti, come esseri razionali. Afferma Freud : ” Edipo, che uccise il padre Laio e sposò la propria madre Giocasta, altro non è che la personificazione dell’appagamento del nostro desiderio infantile. Ma noi, più fortunati di lui, in quanto non siamo diventati psiconeurotici, siamo riusciti in seguito a rimuovere i nostri impulsi sessuali dal loro primo oggetto, la madre, e a dimenticare la nostra gelosia per il padre.” O, ancora: “Tutte le perversioni sessuali possono essere giustamente considerate come inibizioni dello sviluppo.”

 

 

Quanto sia penosa la situazione della donna che ha sposato un uomo i cui sentimenti, anziché maturare, sono rimasti allo stadio infantile, possiamo dedurlo da un altro sogno, apparentemente assurdo, che senz’ombra di dubbio ci trasporta, per strani sentieri, entro il regno dell’antico mito.
“Ho sognato,” scriveva questa moglie inquieta, “d’essere seguita ovunque andassi da un grande cavallo bianco. Ne avevo paura e lo scacciai. Mi volsi per vedere se mi seguiva ancora e scopersi che era diventato un uomo. Gli dissi di andare dal barbiere a farsi radere la criniera ed egli obbedì. Quando riapparve, era del tutto simile a un uomo, ma con volto e zoccoli equini, e riprese a seguirmi. Mentre stava per avvicinarsi ancor di più mi svegliai. Ho trentacinque anni, sono sposata con due bambini. Il mio matrimonio dura ormai da quattordici anni e sono sicura che mio marito mi è fedele.”
L’inconscio popola la nostra mente di una folla di immagini strane, irreali e terrificanti — durante il sonno, in pieno giorno, o nella pazzia. In ogni individuo infatti esiste, sotto quell’edificio relativamente sicuro che chiamiamo conscio, un’insospettata voragine colma dei materiali più diversi, spesso pericolosi.

 

 

Essa è infatti il deposito in cui il conscio ha trasferito le forze psichiche sgradite o represse che non abbiamo voluto o osato accettare e dove esse possono rimanere per sempre ignorate. A volte però una parola, uno sguardo, un profumo, l’aroma di una tazza di tè, risvegliano questi contenuti rimossi e dimenticati e subito la mente è assediata dai loro pericolosi messaggeri. Questi minacciano la nostra sicurezza e quella della nostra famiglia e tuttavia possiedono un malefico fascino, poiché ci aprono la via verso quell’avventura sognata e temuta che è la scoperta di noi stessi. La distruzione del mondo che ci siamo costruiti e in cui viviamo, e di noi stessi, e poi la ricostruzione di una vita più libera, più pulita, più ampia: ecco cosa promettono e minacciano questi affascinanti ed o guida d’anime, del mago-sacerdote dei primitivi santuari silvestri. Il medico è il moderno signore del regno mitologico, di cui conosce tutti i sentieri segreti e le parole d’ordine, ed il suo ruolo è esattamente quello del Vecchio Saggio dei miti e delle favole, le cui parole accompagnano l’eroe durante le prove e le difficoltà dell’avventura.

 

 

È colui che appare all’improvviso ed addita la spada scintillante che ucciderà il terribile drago, rivela l’esistenza della giovane principessa nel castello pieno di tesori, spalma unguenti risanatori sulle ferite mortali, e quando l’eroe vittorioso ritorna nel mondo della vita normale, scompare nel mistero della notte incantata.
Se, con questa immagine dinnanzi agli occhi, ci volgiamo a considerare gli strani e numerosi riti delle tribù primitive e delle grandi civiltà del passato, ci appare chiaro ch’essi avevano lo scopo ed il preciso effetto di assistere gli uomini durante quei processi di trasformazione che impongono dei mutamenti non soltanto nel conscio ma anche nell’inconscio. I cosiddetti riti di passaggio, che occupano un posto così importante nella vita delle società primitive (riti per la nascita, l’imposizione del nome, la pubertà, il matrimonio, la sepoltura, ecc.), comportavano invariabilmente delle pratiche, in genere assai difficili, attraverso le quali venivano radicalmente eliminati dalla mente le tendenze, gli affetti, le abitudini dello stadio precedente. Quindi seguiva un periodo più o meno lungo di ritiro in solitudine, durante il quale si svolgevano speciali cerimonie intese a presentare all’iniziato le forme e i sentimenti propri della sua nuova condizione, così che il suo ritorno nel mondo normale avrebbe costituito per lui una seconda nascita.
Moltissimi dei simboli e delle immagini di questi riti corrispondono a quelli che si presentano automaticamente in sogno al paziente psicoanalizzato nel momento in cui questi comincia a staccarsi dalle fissazioni infantili e ad avanzare nel futuro.
Presso gli aborigeni dell’Australia, per esempio, una delle principali prove imposte per l’iniziazione (con la quale il fanciullo, all’epoca della pubertà, veniva separato dalla madre ed ammesso a far parte del gruppo degli uomini) era il rito della circoncisione.
“Quando per un giovanetto della tribù Murngin è giunto il tempo d’essere circonciso, il padre e gli anziani gli dicono: ‘Il Grande Padre Serpente ha riconosciuto l’odore del tuo prepuzio e lo reclama.’ Il fanciullo prende queste parole alla lettera e si spaventa. Di solito cerca allora rifugio presso la madre, la nonna materna o qualche altra parente a lui cara, poiché sa che gli uomini vogliono trascinarlo nel loro recinto, dove il grande serpente lo attende.
Le donne levano alti lamenti, per indurre il grande serpente a non ingoiare il ragazzo. ” Ed ecco l’immagine corrispondente scaturita dall’inconscio.
“Un paziente,” scrive C. G. Jung, “ebbe in sogno questa visione: ‘Da un umido antro sbucò un serpente e lo morse nella zona dei genitali.’ Il sogno si verificò nell’istante in cui il paziente si convinse dell’esattezza dell’analisi e cominciò a liberarsi dal proprio complesso materno.”
La mitologia e il rito hanno sempre avuto la fondamentale funzione di fornire i simboli che aiutano il progresso dello spirito umano, da contrapporre a quelle altre immagini costanti che tendono ad arrestarlo. Non è da escludersi che l’altissima percentuale odierna di neurotici sia una conseguenza del declino subito da questi efficaci aiuti spirituali. Noi restiamo legati alle immagini inesorcizzate dell’infanzia, e siamo quindi riluttanti ad addentrarci nell’età adulta. Negli Stati Uniti si è addirittura diffusa la tendenza contraria: il fine non è più il diventare adulti, ma il rimanere bambini, non l’emanciparsi dalla dipendenza materna ma prolungarla all’infinito. E così, mentre i mariti, divenuti ormai avvocati, commercianti o industriali secondo il desiderio dei genitori, continuano ad adorare gli idoli della propria infanzia, le loro mogli, dopo quattordici anni di matrimonio, dopo aver messo al mondo ed allevato un paio di figlioli, stanno ancora cercando disperatamente l’amore — quell’amore che potranno trovare soltanto nei centauri, nei sileni, nei satiri e negli altri mostri concupiscenti che popolano i loro sogni, o negli eroi delle pellicole cinematografiche. Alla fine deve intervenire lo psicoanalista, il quale conferma la saggezza degli antichi insegnamenti degli stregoni che danzavano mascherati e circoncidevano i fanciulli, e noi scopriamo che, come nel sogno del serpente, i simboli eterni dell’iniziazione vengono riprodotti spontaneamente dal paziente stesso nel momento in cui si libera dai vincoli che lo legano al passato.
Evidentemente questi simboli sono indispensabili alla psiche, tanto che, quando non vengono forniti dall’esterno, mediante il mito e i riti, si sviluppano autonomamente dentro di noi e si presentano a noi nel sogno. Senza il loro intervento infatti le nostre energie rimarrebbero confinate per sempre nel regno banale e anacronistico dell’infanzia.
Sigmund Freud, nelle sue opere, analizza le fasi e le difficoltà della prima parte del ciclo della vita umana — quelle dell’infanzia e della fanciullezza, quando il sole dell’esistenza sale verso lo zenit.

 

 

C. G. Jung, al contrario, ha posto l’accento sulle crisi della seconda parte — quando, per avanzare, la sfera lucente deve assoggettarsi a discendere e scomparire alfine nel buio grembo della tomba. I normali simboli dei nostri desideri e dei nostri timori si trasformano, nel pomeriggio della vita, nei loro contrari, perché l’avversario non è più la vita, ma la morte. Ciò da cui ci è difficile staccarci non è più il grembo ma il fallo — a meno che,, naturalmente, non ci abbia già assalito la stanchezza della vita, nel qual caso la morte ci appare invitante e piena di promesse quanto lo era stato un tempo l’amore. Noi compiamo un circolo completo, dalla tomba del grembo al grembo della tomba: la nostra non è che una ambigua ed enigmatica escursione entro un mondo concreto che ben presto si dissolve intorno a noi, come le immagini di un sogno.
E, se ci volgiamo a considerare quella che avrebbe dovuto essere la nostra unica, misteriosa e pericolosa avventura, scopriamo che essa è stata soltanto un susseguirsi di puntuali metamorfosi, le stesse subite per millenni da tutti gli altri esseri umani in tutti gli angoli della terra. Ecco per esempio la storia del grande Minosse, re dell’isola di Creta durante il periodo della sua supremazia commerciale.

 

 

Minosse incaricò il celebre artista-inventore Dedalo di costruirgli un labirinto entro il quale nascondere qualcosa di cui tutta la reggia aveva insieme vergogna e terrore. Nel palazzo viveva infatti un mostro, partorito dalla regina Pasifae. Il re Minosse era stato a lungo lontano dall’isola, occupato a combattere per difendere le rotte commerciali, e durante la sua assenza la regina era stata sedotta da un magnifico toro bianco. Nulla di peggio, in fondo, di quanto era capitato alla stessa madre di Minosse, Europa, che, come tutti sanno, era stata portata a Creta da un toro. Questo toro altri non era che Giove, e dalla loro sacra unione era nato Minosse — che ora tutti rispettavano e obbedivano. Come avrebbe dunque potuto immaginare Pasifae che il frutto della propria debolezza sarebbe stato un mostro, un essere dal corpo d’uomo ma con la testa e la coda di un toro? Il biasimo della società fu tutto per la regina, ma il re sapeva di avere la propria parte di colpa. Il toro in questione era stato inviato molto tempo prima dal dio Poseidone, quando Minosse era in lotta con i propri fratelli per la successione al trono. Minosse aveva affermato che il trono gli spettava per diritto divino ed aveva chiesto al dio, quale prova, di fare uscire un toro dal mare, promettendo di sacrificarlo immediatamente in segno di devota sottomissione. Il dio inviò il toro e Minosse sali al trono.

 

 

Ma l’animale era talmente bello, e il possederlo gli avrebbe recato tale prestigio, che il re decise di rischiare e sacrificarne un altro al suo posto — credendo che il dio non se ne sarebbe accorto. Sacrificò dunque a Poseidone il più bel toro bianco delle sue stalle e si tenne l’altro. Sotto la giudiziosa guida di questo insigne legislatore e modello di virtù l’impero cretese prosperò grandemente. La maggiore città dell’isola, Cnosso, divenne la ricca ed elegante capitale della più grande potenza commerciale del mondo civile. I navigli cretesi toccavano tutte le isole e i porti del Mediterraneo; le merci cretesi erano molto apprezzate a Babilonia e in Egitto. Le piccole navi audaci della sua flotta si spingevano fin oltre le colonne d’Ercole in pieno Oceano, caricavano oro in Irlanda e stagno in Cornovaglia ” o veleggiavano lungo le coste africane, oltre il Senegal, sino al remoto Yorubaland, per acquistare oro, avorio e schiavi. In patria, frattanto, la regina era stata assalita da una sfrenata passione per il toro ed aveva convinto l’artista-inventore assunto da suo marito, l’impareggiabile Dedalo, a costruirle una mucca di legno per adescare l’animale. Il toro infatti si lasciò puntualmente trarre in inganno dal simulacro di legno entro il quale la regina si era nascosta, e questa diede alla luce il mostro, che divenne ben presto pericoloso. Il re dovette ricorrere a sua volta a Dedalo e gli ordinò di costruire un immenso labirinto, pieno di passaggi ciechi, in cui rinchiudere il mostro. Il labirinto riuscì così bene che, quando l’ebbe terminato, lo stesso Dedalo durò fatica a ritrovare l’uscita. Il Minotauro fu perciò rinchiuso in questo labirinto, dove veniva nutrito con i giovani e le fanciulle portati a Creta dalle terre conquistate.” Secondo l’antica leggenda, dunque, il principale colpevole sarebbe stato non la regina, ma il re; e questi, ben sapendo di avere la sua brava parte di colpa, non potè infierire troppo contro la consorte. Minosse aveva trasformato un evento pubblico in un vantaggio personale, mentre con il rito dell’investitura egli aveva cessato d’essere un uomo come gli altri. Il sacrificio del toro avrebbe dovuto simboleggiare la sua completa e disinteressata subordinazione ai doveri impostigli dalla sua nuova dignità. L’essersi tenuto l’animale denunciava al contrario un pericoloso egocentrismo. Il re “per grazia di Dio” diventava così un pericoloso tiranno la cui unica cura era il proprio interesse.

 

 

Come gli antichi riti di passaggio insegnavano all’individuo a staccarsi radicalmente dal proprio passato e a nascere una seconda volta alla vita, così le solenni cerimonie dell’investitura lo spogliavano della propria personalità per vestirlo del manto della sua vocazione. Questo era il fine ideale, foss’egli un re o un artigiano. Col sacrilego rifiuto di compiere il rito, tuttavia, l’individuo si tagliava fuori dalla comunità: e così l’Uno si frazionò nei molti, e questi presero a combattersi fra loro — ciascuno mirando al proprio interesse — e poterono essere governati soltanto con la forza. La figura del mostro-tiranno ricorre in tutte le mitologie, le tradizioni popolari, le leggende e persino gli incubi, e le sue caratteristiche sono sempre essenzialmente le stesse. È l’incettatore di tutti i vantaggi della comunità. È il mostro avido che tutto reclama per sé. Il suo malefico influsso investe tutto il suo regno. Questo può essere semplicemente la sua casa, o la sua psiche tormentata, o la cerchia di coloro cui egli concede la sua amicizia o il suo aiuto, o l’intera civiltà cui egli appartiene. Lo smodato egocentrismo del tiranno è una maledizione per lui e per il suo mondo anche se i suoi affari sembrano prosperare. Egli è un apportatore di sventure, anche quando intende fare del bene, e vive nel terrore di se stesso e degli altri, diffidando di tutti, costantemente assalito da immaginari aggressori. Dovunque egli posi la mano, un grido s’alza (a volte chiaro ed udibile, a volte dolorosamente represso) : un’invocazione all’eroe che con la sua spada fiammeggiante, con il suo intervento, con la sua vita, libererà la terra dal tiranno.

 

 

Hcre one can neither stand nor lie down

There is not even silence in the mountains

But dry sterile thunder without rain

There is not even solitude in the mountains

But red sullen faces sneer and snarl

From. doors of mudcracked houses.

 

 

L’eroe è l’uomo che si è volontariamente sottomesso. Ma a che cosa? Questo è l’enigma che oggi dobbiamo affrontare, e la principale virtù dell’eroe è proprio quella di averlo risolto. Come ci dimostra Arnold J. Toynbee nel suo studio sulla nascita e la scomparsa delle civiltà, né l’arcaismo, il ritorno ai bei tempi antichi, né il futurismo, con i suoi ottimistici programmi, e neppure gli sforzi più realistici e testardi per saldare di nuovo insieme gli elementi disintegrantisi, impediranno lo scisma dell’anima, lo scisma del corpo sociale. Solo la nascita può vincere la morte, la nascita di qualcosa di nuovo. Per poter sopravvivere, deve verificarsi nell’anima, nel corpo sociale, una “nascita continua” (palingenesi) che annulli l’incessante opera della morte. Senza questa costante rigenerazione, le nostre vittorie non saranno che strumenti della Nemesi : la nostra virtù reca in seno la nostra condanna. Ed allora la pace diventa un’insidia, un’insidia la guerra, un’insidia il mutarsi e il permanere. Quando giunge per la morte il giorno della vittoria, essa ci stringe d’assedio e noi non possiamo far nulla salvo che lasciarci crocifiggere — e resuscitare; lasciarci distruggere totalmente, e rinascere.
Teseo, l’eroe giustiziere del Minotauro, giunse a Creta da fuori, quale personificazione della nascente civiltà greca. Egli rappresentava il “qualcosa di nuovo.” Ma il principio rigeneratore può essere cercato e trovato anche entro le stesse mura dell’impero del tiranno. Arnold J. Toynbee usa i termini “distacco” e “trasfigurazione” per definire le crisi attraverso le quali viene raggiunta quella più alta dimensione spirituale che consente di riprendere l’opera della creazione. Il primo passo, il cosiddetto distacco, è costituito da un radicale trasferimento dell’interesse dal mondo esterno a quello interiore, dal macrocosmo al microcosmo, un passaggio dalla desolazione del deserto alla pace del regno eterno che è in noi. Ma questo regno, ci ha spiegato la psicoanalisi, è precisamente l’inconscio infantile. È il regno nel quale entriamo nel sonno e che portiamo costantemente in noi, e dove si sono rifugiati tutti gli orchi, gli eroi, le immagini favolose dell’infanzia. Qui risiedono inoltre tutte quelle energie vitali che non siamo riusciti a portare con noi nella maturità e che non si sono affatto spente, ma sono ancora parti integranti di noi stessi. Se fosse possibile riportare alla superficie anche soltanto una parte di queste energie perdute, la nostra vita subirebbe un meraviglioso rinnovamento e potenziamento. Se poi potessimo portare alla luce le obliate energie collettive di un’intera generazione o di una intera civiltà, diventeremmo il benefattore, l’eroe del nostro tempo — un personaggio di importanza non soltanto locale ma storica. In breve: il primo compito dell’eroe è quello di abbandonare il mondo degli effetti secondari e ritirarsi nelle zone causali della psiche dove risiedono le difficoltà e qui risolvere queste difficoltà, sradicarle (cioè dar battaglia ai demoni infantili della sua civiltà) e passare trionfante alla diretta esperienza e all’assimilazione di quelle che Jung ha definito “le immagini archetipe.” È questo il processo che la filosofia indù e buddista chiama viveka, “discriminazione.”
Gli archetipi da scoprire e assimilare sono precisamente quelli che hanno ispirato, durante tutti i secoli della cultura umana, le immagini fondamentali della mitologia, dei riti e delle visioni. Queste “Eterne Presenze del Sogno” ” non devono confondersi con le figure simboliche e soggettivamente modificate che appaiono negli incubi notturni e nella pazzia all’individuo ancora tormentato. Il sogno è la versione individuale del mito, il mito è la versione collettiva del sogno; mito e sogno sono entrambi simbolici in quanto frutto della stessa dinamica della psiche. Ma nel sogno le immagini si diversificano per ciascun individuo a seconda della particolare natura dei suoi affanni, mentre i problemi e le soluzioni proposti dal mito sono direttamente validi per tutto il genere umano.
L’eroe, perciò, è colui o colei che ha saputo superare le proprie limitazioni personali e ambientali e raggiungere le forme universalmente valide. Queste immagini, idee e ispirazioni scaturiscono dalle primordiali sorgenti della vita e del pensiero umano. Esse perciò sono gli emblemi non della psiche e della società attuale in disintegrazione, ma della sorgente inestinguibile che rigenera la società. Come uomo moderno l’eroe è morto, ma come uomo eterno, perfetto, indeterminato, universale è stato ricreato. Il suo secondo compito è quindi (come afferma Toynbee e come indicano tutte le mitologie del genere umano) quello di ritornare fra noi, trasfigurato, a svelarci il mistero del rinnovamento della vita.
“Passeggiavo sola alla periferia di una grande città, lungo vie sudicie e fangose, tra file di case miserevoli,” racconta una donna descrivendo un sogno avuto. “Non sapevo dov’ero, ma mi piaceva proseguire alla ventura. Mi avviai lungo una strada coperta di fango che passava sopra una cloaca aperta. Continuai a camminare tra due file di catapecchie finché giunsi ad un piccolo fiume oltre il quale si stendeva una strada selciata. Era un bel fiume limpido che scorreva sopra l’erba.

 

 

Vedevo i fili d’erba muoversi sul fondo. Poiché non v’erano ponti, mi recai in una casa vicina e chiesi dove avrei potuto procurarmi una barca. L’uomo che mi accolse si offerse d’aiutarmi ad attraversare. Portò fuori una cassetta di legno che depose sulla riva del fiume e subito vidi che con quella cassetta mi sarebbe stato facile saltare sull’altra sponda. Compresi che ogni pericolo era passato e desiderai ricompensare lautamente l’uomo. “Ricordo benissimo che nulla mi aveva costretto a prendere la strada del fiume e che avrei potuto scegliere una comoda strada selciata. Mi ero recata in quel quartiere squallido per puro spirito d’avventura e, una volta cominciato, dovevo proseguire… Ricordo che continuavo a camminare diritta come se sentissi che alla fine avrei trovato qualcosa di bello, come quel limpido corso d’acqua e la strada comoda e selciata.” Pensare in questi termini significa essere determinati a nascere o piuttosto a rinascere in senso spirituale. Forse molti di noi devono attraversare strade buie e tortuose prima di poter incontrare il fiume della pace o la strada maestra che conduce alla destinazione dell’anima.

 

 

La donna che fece questo sogno è una valente cantante lirica e, come tutti coloro che hanno scelto, anziché la comoda e sicura strada della normalità, quella più emozionante dell’avventura, sulla quale può avviarsi soltanto chi è in grado di udirne il debole, particolare richiamo, dovette farsi largo da sola, fra difficoltà non comuni, “fra vie sudicie e fangose.” Ella ha conosciuto la cupa notte dell’anima, la “selva oscura” di Dante, e le angosce del profondo inferno. “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente.” È interessante notare come in questo sogno siano riprodotti i motivi essenziali della formula mitologica universale dell’avventura dell’eroe. Il motivo altamente significativo dei pericoli, degli ostacoli e dei fortunati incontri lungo il cammino lo ritroveremo centinaia di volte nelle pagine che seguono. La cloaca aperta, e poi il limpido fiume dal letto erboso, la comparsa del volonteroso soccorritore al momento critico, e la strada comoda e selciata oltre la corrente (il Paradiso Terrestre, la Terra oltre il Giordano) sono temi che ricorrono di continuo nel meraviglioso canto della grande avventura dell’anima. E colui che ha avuto il coraggio di obbedire al segreto richiamo ha conosciuto gli agguati di quel pericoloso, solitario cammino.
A sharpened edge of a razor, hard to traverse,

A difficult path is this poets declare!
Nel sogno, la donna riesce ad attraversare il fiume con l’aiuto di una cassettina di legno, che qui fa le veci della solita barca o del solito ponte. Essa è il simbolo del suo speciale talento, delle particolari virtù che l’hanno guidata e sorretta attraverso le acque del mondo. La protagonista del sogno non ci ha fornito nessun’altra notizia e perciò non sappiamo quale può essere stato il contenuto della cassetta, ma si tratta certamente di una variante del vaso di Pandora, che gli dei donarono alla bella fanciulla e in cui erano racchiusi tutti i mali e le felicità della vita, insieme con la speranza, la virtù che tutti ci sorregge. Con l’aiuto di questa cassetta la donna raggiunge l’altra sponda. Allo stesso modo tutti coloro che si sono imposti il difficile e pericoloso compito di scoprire se stessi e di sviluppare il proprio io riusciranno ad attraversare l’oceano della vita. La maggior parte degli uomini e delle donne sceglie la via meno rischiosa delle relativamente inconsce attività civiche e tribali.

 

 

Ma anch’essi vengono salvati, grazie ai simbolici aiuti ereditari della società, i riti di passaggio, i sacramenti apportatori di grazia, donati nei tempi antichi all’umanità dai redentori e tramandati nei millenni. Solo per coloro che non seguono né un richiamo interiore né alcuna dottrina esterna la situazione è veramente disperata; cioè per la maggior parte di noi, prigionieri di questo labirinto esterno ed interiore. Ahimé! dov’è la nostra guida, dov’è la nostra Arianna, pronta a fornirci il semplice rimedio che ci darà il coraggio di affrontare il Minotauro e poi il mezzo per ritrovare la via alla libertà quando avremo affrontato ed ucciso il mostro? Arianna, figlia di Minosse, si innamorò del bel Teseo nell’attimo stesso in cui lo vide scendere dalla nave che aveva trasportato a Creta gli infelici giovani ateniesi destinati al pasto del Minotauro. Trovò modo di parlargli e gli disse che, se avesse promesso di portarla via dall’isola e farla sua sposa, gli avrebbe procurato il mezzo per uscire dal labirinto. Teseo promise. Arianna si rivolse allora all’ingegnoso Dedalo, colui che aveva costruito il labirinto e procurato alla madre di Arianna la possibilità di concepire il mostro

 

 

che vi abitava. Dedalo le consegnò un semplice gomitolo di filo di lino, di cui l’eroe avrebbe dovuto fissare un capo all’ingresso del labirinto, per svolgerlo via via che vi si addentrava. È davvero ben poco ciò di cui abbiamo bisogno! Ma se questo poco ci manca, l’avventura entro il labirinto è senza speranza. Questo “poco” è a portata di mano. Abbiamo visto come lo stesso artista-inventore che, al servizio del re peccatore, aveva creato l’orribile labirinto, con altrettanta prontezza indicò il mezzo per riconquistare la libertà. È dunque sufficiente che l’eroe voglia offrire il suo aiuto. Da secoli Dedalo è il simbolo dell’artista-scienziato, quell’essere curiosamente disinteressato e quasi diabolico, superiore ai giudizi della società, che agisce non secondo la morale del suo tempo ma secondo quella della sua arte. Egli è l’eroe della libertà di pensiero, sincero, coraggioso, convinto che la verità, quand’egli l’avrà trovata, ci renderà liberi.
E così noi possiamo rivolgerci a lui, come fece Arianna. Il lino per il suo filo egli l’ha raccolto nei campi dell’umana attività creatrice. Nel taglio, nella scelta, nella filatura di quel lino strettamente ritorto sono condensati secoli di diligente lavoro di innumerevoli esseri. Inoltre, noi non siamo nemmeno costretti a tentare l’avventura da soli, poiché gli eroi di tutti i tempi ci hanno preparato il cammino nel labirinto, di cui conosciamo ogni segreto passaggio, e noi dobbiamo soltanto seguire il filo svolto dall’eroe. E dove avevamo creduto di trovare un mostro, troveremo un dio; dove avevamo previsto di uccidere, ci “uccideremo”; dove credevamo di dover proseguire, troveremo il centro della nostra esistenza; dove avevamo creduto d’essere soli, troveremo tutta l’umanità.

 

 

 

Testo estratto da: “The Hero with a Thousand Faces” – L’eroe dai mille volti – di Joseph Campbell

Joseph John Campbell (White Plains, 26 marzo 1904 – Honolulu, 30 ottobre 1987) è stato un saggista e storico delle religioni statunitense.