Ipazia. La vera storia.

Nel quinto secolo dopo Cristo una donna fu assassinata. Non sappiamo molto di lei, se non che era bella e che era una filosofa. Sappiamo che fu spogliata nuda e che fu dilaniata con cocci aguzzi. Che le furono cavati gli occhi. Che i resti del suo corpo furono sparsi per la città e dati alle fiamme. E che a fare tutto questo furono dei fanatici cristiani.

Sappiamo che da allora è diventata un simbolo, un’icona. Anche se di questa icona non conosciamo i tratti. Non sappiamo se fosse bruna e dagli intensi occhi neri come un fayyum o bionda e diafana come un ritratto vittoriano. Sappiamo che i suoi allievi si innamoravano di lei, e che lei li respingeva. Sappiamo che era da ogni punto di vista un’aristocratica. Sappiamo che il suo assassinio fu uno scandalo la cui eco non si è mai spenta in quindici secoli, anche se è stato soffocato dalla chiesa cattolica, quella dei papi. E che anche per questo è diventata una bandiera di laicità. Ma cosa veramente sia in questa bandiera, non è chiaro.

Secondo alcuni, il suo fu un assassinio politico. Secondo altri, fu l’espressione dell’intolleranza religiosa di antichi monaci talebani, nella cui violenza si specchiavano la vocazione estremista e gli eccessi integralisti della chiesa alle origini della sua scalata al potere.

Secondo alcuni il suo assassinio fu casuale, un danno collaterale nella lotta contro l’ebraismo del giovane cristianesimo, nato come sua eresia, cresciuto poi all’ombra delle sinagoghe, divenuto infine il suo peggiore avversario. Secondo altri – fra cui le fonti antiche – fu invece una precisa ostilità individuale, quella di un giovane, collerico e ambizioso vescovo, a commissionarlo.

Secondo alcuni la donna assassinata era una scienziata, «la più importante fino a Madame Curie». Secondo altri, una filosofa, «allieva di Plotino». Secondo altri ancora, una sacerdotessa e una teurga.

Alcuni l’hanno incoronata come eroina protofemminista, altri come martire della libertà di pensiero. Alcuni l’hanno commemorata come agnello sacrificale dell’ultimo paganesimo, altri ancora come prima strega bruciata sul rogo dall’inquisizione ecclesiastica.

La sua figura ha incarnato la superiorità del paganesimo, con il suo pluralismo e la sua apertura, rispetto alla dogmatica chiusura dei monoteismi. O è diventata allegoria della lotta contro gli integralismi secolari, emblema del radicale rifiuto delle fedi e delle ideologie pervasive.

Se nella storiografia è stata strumentalizzata, nella letteratura è stata trasfigurata e tradita. È stata illuminista e romantica, decadente e parnassiana, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. È stata un Galileo donna e una Mademoiselle de Maupin, una George Sand e un’Odette, un asteroide e una stella invisibile dalla prodigiosa forza d’attrazione, un buco nero.

Ma dietro tante maschere o visioni che cosa si cela? Per capirlo meglio possibile bisogna istruire un’inchiesta. Non aggiungere tratti ma se mai sottrarre, ai già pochi che la tradizione antica tramanda, quelli che l’analisi dell’esile fascicolo di testimonianze originarie rimaste su di lei ci suggerisce falsi o distorti.

Siamo certi, o quasi, di ciò che quella donna non è stata. Non una filosofa cinica, non una criptocristiana, non una scienziata perseguitata dalla chiesa per le sue scoperte astronomiche, non una protofemminista. In generale nulla di tutto quello che hanno voluto vedere in lei, con più o meno conscia o deliberata sublimazione o mistificazione, gli storici e i letterati che hanno disegnato la sua fortuna postuma.

Un’altra cosa è quasi certa: cercava la verità, amava il dubbio, detestava la manipolazione. Di una metodica diffidenza su quanto è stato detto su di lei, di un sistematico smantellamento del suo mito letterario e della sua reinvenzione politico-ecclesiastica e storiografica, non potrebbe che essere, crediamo, contenta.

Tutti vorrebbero venirle incontro, conoscere questa misteriosa martire della conoscenza. Ma parlare di lei richiede un certo grado di iniziazione. Non di iniziazione platonica, come quella dei suoi allievi o dei suoi continuatori bizantini e moderni. Di iniziazione ad altri e più secolari misteri, a verità che non è facile né immediato conoscere, o riconoscere: la natura propagandistica della storia; l’inevitabilità della deformazione letteraria; la quasi impossibilità di emettere, sul passato, un giudizio equo, non influenzato dal presente e da tutte quelle sedimentazioni di presenti passati che sommandosi alle testimonianze più antiche compongono l’oggetto storico.

Queste sulla natura della storia, e sulla quasi insormontabile difficoltà di ricostruirla, sono conoscenze iniziatiche, per pochi, perché potrebbero indurre molti a scoraggiarsi, a trasformare il disincanto in scetticismo o anche in cinismo, l’assenza di pregiudizi con cui si valutano le versioni delle fonti in disinvoltura interpretativa, o addirittura in tentazione di manipolarle a propria volta.

La perplessità, il disincanto, il dubbio sono strumenti da maneggiare con cura, perché le conclusioni di chi esercita la critica storica non siano a loro volta distorte dall’attualità del presente e anche subliminalmente strumentalizzate dalla sua propaganda, fino a diventare tacciabili di quella stessa soggezione all’ideologia di cui la figura dell’antica filosofa dovrebbe invece essere la negazione.

Se vogliamo davvero renderle omaggio, non dobbiamo perdere l’occasione di ricostruire il suo profilo e il suo sacrificio, così importanti nella storia della politica e del pensiero, in modo non settario. Di leggere la sua storia in maniera autenticamente laica e libera: per quanto possibile, vera.

C’era una donna

C’era una donna quindici secoli fa ad Alessandria d’Egitto, il cui nome era Ipazia. Quel nome, nella lingua greca, usata al tempo laggiù, evocava un’idea di «eminenza», «acutezza», «suprema altezza». Glielo aveva dato suo padre, un celebre sapiente, che progettava per lei una carriera di studiosa. Nessuno poteva immaginare che il destino, o il caso, che è re del mondo, avrebbero fatto di Ipazia una martire del pensiero. Che quella discendente di pacati professori nella civile Alessandria avrebbe avuto una morte violenta. Che sarebbe stata vittima di un assassinio atroce, tra i più deplorati nella storia della cultura.

C’era una donna allora ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia, narra uno storico cristiano suo contemporaneo, Socrate Scolastico, avvocato alla corte di Costantinopoli.

Fin da piccola, raccontano le antiche fonti, Ipazia era stata allevata allo studio. Da Teone aveva imparato tutto quello che poteva. Ma non si era accontentata della disciplina del padre, aveva voluto imparare di più. E così aveva raggiunto un sapere ancora più ampio, che spaziava anche in domìni diversi da quelli che Teone le aveva trasmesso. Il fatto era, dicono le antiche fonti, che in realtà l’allieva era ancora più intelligente del maestro.

Essendo per natura più dotata del padre, non si fermò agli insegnamenti tecnico-matematici che lui praticava, ma si diede alla filosofia vera e propria, e con valore, racconta Suida, un intellettuale bizantino del decimo secolo, nel lungo articolo che all’interno della sua mirabile enciclopedia ha per titolo Ipazia, o della faziosità degli alessandrini. Le sue notizie derivano da due narrazioni, oggi perdute, del secolo successivo ai fatti: quella, vera o presunta, di Esichio di Mileto, e la Vita di Isidoro, ultimo sacerdote del tempio di Serapide, composta dall’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene prima della sua chiusura da parte di Giustiniano, il neoplatonico Damascio. Di entrambe ci restano solo frammenti. È presumibile sia la prima delle due fonti a dichiarare ciò che è confermato anche da un’altra testimonianza antica, in gran parte perduta ma di pochissimi anni posteriore alla morte di Ipazia, la Storia ecclesiastica di Filostorgio, che forse udì alcune sue lezioni:

Ipazia divenne molto migliore del maestro, particolarmente nell’astronomia, e finì per essere lei stessa maestra di molti nelle scienze matematiche.

Un enciclopedista di otto secoli successivo a Suida, Denis Diderot, puntiglioso interprete del suo predecessore bizantino nelle due colonne dell’Encyclopédie in cui trattò di Ipazia, scrive: «A nessuno la natura aveva mai concesso un’anima più elevata o un genio più felice di quelli della figlia di Teone. L’educazione ne fece un prodigio» perché «convogliò i princìpi fondamentali delle altre scienze» apprese dal padre «nella conversazione e nelle scuole dei celebri philosophes che fiorivano allora ad Alessandria». E conclude: «Di cosa non si viene a capo con un’intelligenza penetrante e un vero ardore per lo studio?».

Dopo anni e anni di studio, Ipazia aveva finito per farsi una fama tra gli intellettuali del suo tempo. Una notorietà per intenditori, che tuttavia non si limitava alla sua città, ma si era diffusa nella comunità internazionale dei dotti della tarda antichità. Anche se l’impero romano d’occidente stava per cadere in mano ai barbari, un altro impero era nato a oriente, quello bizantino, che ne era la gloriosa continuazione. Anche se quel secolo, il quinto dopo Cristo, poteva sembrare un’epoca di decadenza, l’amore per la cultura era ovunque più grande che mai. Anzi, era più vivo della cultura accademica, affidata, fuori di Alessandria, a professori sterili e incapaci di trasmettere il sapere in modo seducente.

Così, Ipazia era vista da tutti come una luminosa eccezione e da ogni parte del mondo greco e romano gli amanti del sapere venivano ad ascoltare le sue lezioni accademiche, in cui si perpetuava la tradizione dell’antica scuola platonica.

Aveva ricevuto in eredità (diadoche) l’insegnamento della scuola platonica derivante da Plotino ed esponeva a un libero uditorio tutte le discipline filosofiche […]. Da ogni parte accorrevano a sentirla quelli che volevano darsi alla filosofia, narra Socrate Scolastico nella sua Storia ecclesiastica. Ipazia aveva un modo di insegnare particolarmente efficace e un’argomentazione fluente:

Aveva raggiunto un livello eccelso nella prassi nell’insegnamento, racconta Suida, e nel parlare era fluente e dialettica.

Inoltre, stando all’enciclopedista bizantino del decimo secolo, che qui riporta le parole di Damascio, «pur essendo donna indossava il tribon», termine che all’epoca di Ipazia evocava il mantello grezzo dei predicatori cinici, e faceva le sue pubbliche apparizioni nel centro della città per spiegare a chiunque volesse ascoltarla Platone, Aristotele o qualcun altro dei filosofi.

E l’enciclopedista del diciottesimo secolo, Diderot, conclude:

Tutte le conoscenze accessibili allo spirito umano, riunite in questa donna dall’eloquenza incantatrice, ne fecero un fenomeno sorprendente, e non dico tanto per il popolo, che si meraviglia di tutto, quanto per i filosofi stessi, che è difficile stupire.

Testo tratto da ” Ipazia. La vera storia ” di Silvia Ronchey
ed.  RCS Libri S.p.A., Milano – ISBN 978-88-58-62217-9

SILVIA RONCHEY è professore di Filologia classica e Civiltà bizantina all’Università di Siena. Tra i suoi libri, L’enigma di Piero (Rizzoli 2006, disponibile in BUR), con cui ha vinto il Premio Elsa Morante, Il guscio della tartaruga (Nottetempo 2009) e Il romanzo di Costantinopoli (Einaudi 2010). Collabora con “La Stampa”, “Tuttolibri” e la RAI.