L’apertura all’intelletto d’amore

Questione irresolubile è la sovrapponibilità della razionalità occidentale moderna, totalitaria e illuministica oppure appannata e idealistica, al pensiero di altri popoli. Il caso più clamoroso fu lo scontro fra la razionalità cattolica spagnola e francese di sfondo tomistico o la razionalità guidata dalla logica diagrammatica protestante degl’Inglesi da una parte e le concezioni sciamaniche degl’indigeni americani dall’altra, scoppiato nel XVI secolo e proseguito fino a oggi. Il pensiero dei bianchi ha sempre automaticamente giudicato irrazionale l’indigeno, ma cominciano ad affiorare opere che capovolgono questo giudizio; fra i più recenti revisori, il fisico F.D. Peat e l’urone G. Sioui. Nell’incontro con l’indigeno la logica binaria aristotelica su cui si fonda l’argomentare europeo cede: crolla la posizione dell’Europeo che s’immagina d’essere uno spettatore immobile della storia in divenire; la lingua fondata sui sostantivi è sostituita da idiomi basati su verbi, che agglutinano in vaste parole il contenuto d’una frase; l’enunciazione è sostituita da narrazioni allusive; scompare la distinzione fra corpo e anima, veglia e sonno, quella fra passato, presente e futuro; subentra un fluido e sensitivo impasto dove non si separano passato, presente e futuro, ma solo il manifesto da ciò che sia per manifestarsi.
La concezione originaria del Pellerossa è esente delle categorie e impostazioni europee; manca completamente l’idea di Dio Signore che tutto sovrasta e regge, misterioso e temibile oggetto d’amore: il zoakati tanka sioux è soltanto una forza vastissima e solenne.
Ancor meno presente tra i Pellerossa era l’ateismo epicureo che i libertini europei del Seicento si illudevano d’incontrare in loro. Per un Sioux l’altro è come un membro della famiglia, ma l’altro non è in primo luogo l’uomo. Chiudersi in una comunanza di uomini umanamente in disputa sarebbe per lui soffocante.
Il Sioux, aggirandosi nel fitto d’una foresta, percepisce come suo prossimo ogni animale occhieggiante tra le fronde, ma anche ogni tronco, fiore, gemma, lichene, fungo, a ciascuno rivolge attenzione e saluti.
Osserva la forma della terra come un’articolazione intellettuale e passionale, su cui incombono misteriose le montagne: offrono conoscenza a chi le scali per raccogliersi tra i nidi d’aquile e alle valli largiscono le acque vive. Infine il Pellerossa sente come suo fratello maggiore, terribile e fausto, l’uccello del tuono, insieme al lampo e al vento. Nel cielo legge il discorso oracolare degli astri che lo guidano nella notte e gli annunciano eventi, parlandogli all’intimo. Il Pellerossa vive affiatato, identificato con ciò che, abbracciandolo o ferendolo, lo avvolge.
All’inizio due furono le impressioni riportate dagli Europei: l’esploratore della Virginia, A. Barlowe, nel 1584 parlò di indigeni amabili e fedeli immersi nell’età dell’oro, l’orecchio proteso al loro Apollo, mentre di contro si levava il biasimo generale per la presenza sulle sponde d’America d’un popolo barbaro, senza cuore, dominato dalla magia nera, dedito al culto degli dei nefasti di Roma.
W. Strachey parla di templi gremiti di figure tenebrose, dove in una nicchia si erge, nascosto, un dio nero tempestato di perline, dal quale ogni male emana. Ma che conto faremo di tali quadri? Nel XIX secolo D.G. Brinton verificherà che questi primi scrittori ignoravano perfino le lingue delle tribù. Almeno il più avventuroso tra loro, J. Smith, rappresentò con efficacia il suo incontro con «l’imperatore» della Virginia, che lo volle sottoporre all’esame dei suoi sciamani. Si presentò il primo, cosparso d’olio nerastro, formicolante di serpenti e danzò al rullo d’un crepitacolo. Circondò Smith d’un segno di farina, simbolo del paese dove si trovavano. Attorno a quel tondo si installarono altri sciamani e digiunarono per tre dì, sempre cantando e gettando grani e verghette, simboli dei flutti oceanici. Il quarto giorno fu chiaro il risultato, si condannava Smith. Quale che sia il giudizio sul metodo, la condanna era razionale. L’Europeo doveva sommergere le civiltà indigene, disse Herder, perché aiutato da cani e cavalli, all’indigeno non restava che aborrirne.
Quando una comunità protestante si insediò nella Nuova Inghilterra, una delle sue guide, Cotton Mather, condannò come irrazionali gl’Indiani perché usavano strumenti di pietra benché avessero a disposizione ricche miniere. Quanto ai loro sciamani, si dovevano perentoriamente maledire: proiettavano oggetti nei corpi umani, catturavano le anime ai dormienti e le incarnavano in mosche.

Qualche occhio sereno si appuntò alla razionalità indigena: W. Wood ammirava gli sciamani, capaci di bruciare una pianta per subito risuscitarla dalle ceneri; gli alchimisti posero attenzione ai filtri, congiunzioni di ogni vegetale, animale e minerale, preparati dagli sciamani. Le carte d’un Canadese vissuto ai primi dell’Ottocento, G. Nelson, riferiscono che gl’indigeni digiunavano per sognare il mondo sovrannaturale aldisotto dei fiumi, dove, in teatri coperti, ricevevano istruzioni sull’uso di minerali, nicchi, pietre e talco, nonché della pomice da polverizzare e mescolare alle varie sostanze terapeutiche [J.S.H. Brown e R . Brightman, 1988].
Per gl’illuministi gli indigeni erano la parte infima dell’umanità, cresciuta nel continente più imperfetto, rimasta agl’inizi del progresso. Ma l’illuminista può alternativamente, rousseauianamente, ammirare gli esemplari di natura semplice e incorrotta, sicché nei salotti di Londra furono esibiti i capi tribù americani ed il barone de Lahontan esaltò la sincerità degli Uroni dediti all’amore libero e rallegrati da amabili farceurs, gli sciamani.
Di contro a de Lahontan si levò, dal campo gesuita, convinto della Rivelazione primitiva a ogni popolo e della fase matriarcale degl’inizi, J. Lafiteau e lo seguì al principio dell’Ottocento un sacerdote episcopaliano di New York, S.F. Jarvis, che paragonò l’indigeno al mondo in cui Abramo dimorava presso il re di Gerar, Balaam incontrava Dio e Giobbe l’arabo era assunto ad esempio. Jarvis citava a favore della sua tesi tradizionale e reverente verso le costumanze indiane il gesuita de Charlevoix, il russo Loskiel, il vescovo moravo J. Heckewelder. Gl’Indiani sono profeti come Elia, Giobbe o Balaam!
Vennero a contatto le tradizioni esoteriche d’Europa e le concezioni indiane. Nella Massoneria inglese entrarono il capo ojibway G. Copway e, all’inizio del secolo, il minnesota C. Eastman (Ohiyesha), che seppe raffigurare con semplicità esemplare la filosofia indigena. Ma la Massoneria americana riluttò ad accogliere gl’Indiani e nel 1865 la Gran Loggia di New York vietò la loro iniziazione. La «Masonic Review» di Cincinnati del 1863 invitava gl’indigeni ad associarsi, semmai, alle loro proprie società.
Nel 1932 usciva un’opera di A.C. Parker, dove si narrava che nel 1919 quattro membri del Concistoro di Rito Scozzese Antico ed Accettato di Buffalo erano stati ricevuti in una loggia della tribù dei Seneca, di rigorosa segretezza. Parker la paragona alle logge dei Pueblo, specie degli Zuni, o degli Ojibway, dei Pawnee, dei Navajo. In genere tutte queste organizzazioni si richiamavano a una simbologia naturale, ma talvolta, nel Sudovest e nel Nordovest, facevano riferimento alla tecnica edificatoria.
Parker riferisce una storia sioux. Il giovane capo Mano Rossa aveva ricevuto un’iniziazione esoterica, sapeva in quali luoghi fosse possibile entrare in contatto con il Sommo Mistero. Era gentile verso rocce, fiere e uomini in pari grado. Offriva cibo agli uccelli durante l’inverno e gettava carne ai lupi e erba ai cervi, faceva regalini ai fanciulli, donava olio ai vecchi e si dedicava come capo ai guerrieri. Un giorno una freccia lo ferì; interrogato sulla fonte delle sue conoscenze, tacque, sicché fu ammazzato con un colpo d’ascia.
Un lupo sentì l’odore del suo sangue e i capi delle fiere accorsero, si versò acqua sul suo scalpo, si sacrificarono per lui le parti vitali di tutti gli esseri, si cantò il rito dei Guardiani Antichi d’ogni potere mistico. Fu così risuscitato, ma restava immobile. Le aquile lo portarono sotto una cascata, dove l’orso gli toccò il petto e gli afferrò la mano, sollevandolo in piedi. Mano Rossa s’arrampicò sulla cima di una montagna dove cresceva il mais selvatico, alle cui radici si trovavano un coltello di silice e una scatolina dov’era la potenza che rida la vita. Una voce ordinò di tagliare il mais e ne colò del sangue. Ingiunse quindi di spalmare sul mais ferito la potenza che rida la vita e infine emanò il suo terzo comando, fondare un Ordine.
Parker si domanda quali differenze sostanziali separino tali racconti dai miti osiridei dell’antichità occidentale. Proprio una decina d’anni dopo l’avventura massonica di Buffalo, l’antropologo E.M. Loeb [1929] condusse una ricerca sulle associazioni esoteriche indigene. Notò preliminarmente che l’origine siberiana degl’Indiani d’America risalta dalla compresenza di uomini e donne nelle società esoteriche; e che soprattutto nel Nordovest, dove l’influsso siberiano è vibrante, durante le attività segrete si cade in transe.
In California iniziazioni segrete sono note fra i Pomo, dove gl’iniziatori si travestono da spettri; la stessa cerimonia figura tra Yuki, Miwok e Mappo. Nella California meridionale si usa la datura per suscitare allucinazioni e gli sciamani sparano proiettili l’uno all’altro, cadendo trafitti, per essere subito risuscitati. L’esoterismo compare tra Pueblo e Navajo, ma senza morte e resurrezione, salvo forse a Cochiti, dove durante una certa cura muore il medico e dev’essere massaggiato per riprendere vita. Presso Zuni, Pueblo, Hopi, Navajo, i morti diventano burattini o katshina e gli spettri della California nel Sudovest diventano clown. A Cochiti le donne sono sostituite da danzatori travestiti.
Nel Nordovest, dove iniziatrici possono essere le vecchie, l’arte delle danze si trasmette per matrimonio o per eredità. L’ordine più importante è quello dei cannibali (hamasta), dove l’adepto è catturato dal suo spirito custode e dev’essere salvato mediante danze rituali dopo che è morto. Nella società «koala» dei Nootka i membri si considerano lupi; i candidati sono portati nella foresta, dove muoiono, quindi riparano nella loggia per esservi rianimati e introdotti alla vita iniziatica.
Fra i Menominee i capi impersonano gli dei. La società irochese delle Facce False indossa maschere grottesche e una volta all’anno caccia gli spiriti maligni dalla comunità. Le comunità stregonesche dal canto loro sono clandestine e non sempre se n’è scoperta l’esistenza. P. Radin (scomparso nel 1950), che si mise in contatto con Jung, condusse il primo studio della filosofia esoterica indigena destinato a entrare nel giro delle conoscenze europee. Egli attribuì un’importanza capitale al rito hako dei Pawnee, nel quale una compagnia canta concentrandosi su una figurina della dea del grano e, suscitando un’autoallucinazione generale, stabilisce un contatto, promosso e accertato dall’attenzione ferma e inesorabile di tutti, con un uomo che dimora in una lontana tribù. Con lui si stringerà poi nella realtà un rapporto strettissimo, fino a innalzarne il figlioletto a capo d’una nuova società. Oltre allo hako Radin osserva i rituali pawnee che manipolano pacchetti dove è celata una spiga di mais, la Madre da orientare sulle quattro direzioni.
Ma fra i Pawnee si celebravano riti ben più esoterici; la Società dei Venti Giorni festeggiava l’iniziazione del capo della tribù immaginando che cadesse in un fiume, per trovarsi nella loggia sotterranea degli animali divini presieduti dalla Sacerdotessa. Qui lo Spirito dell’Acqua gli forniva l’istruzione. La cerimonia terminava quando il capo soffiava in bocca ai presenti, tramutandoli in animali. Questi come tali danzavano finché il capo tirava frecce su di loro e cadevano tramortiti. Allora essi scorgevano accanto a sé un uovo di ghiaccio, dono degli animali, e lo dovevano inghiottire, dopodiché acquisivano la potestà di influire su chiunque, ipnotizzando a volontà.

Terminata la seduta, le danze finali e i giochi di prestigio degl’iniziati si svolgevano a cospetto del pubblico; Radin enumera come equivalenti la danza del sole sioux e i riti zuni.
Quando Radin ad Ascona esponeva ai maggiori studiosi d’Europa queste scoperte, si celebrava, dopo circa quattro secoli di sfioramenti imprecisi, il primo contatto fra indigeni iniziati ed Europei convinti della funzione primaria da conferire ai simboli: si delineava la possibilità d’una metafisica comune.

Non si trattava più di un contatto giuridico fra società ugualmente nutrite di parole d’ordine, come fra i massoni di Buffalo e gli Irochesi, ma di un confronto fra concetti. Forse si scoprì in tal maniera il nucleo di un’intesa filosofica futura, in cui sarà dato di attingere le premesse fondamentali, comuni, fondendo l’io e l’universo entro l’unità dell’umano, dell’animale, del vegetale, del minerale, comprese la rupe più compatta e l’acqua più pura.

Testo estratto da “La Nube e il Telaio” di Elémire Zolla

Elémire Zolla (Torino, 9 luglio 1926 – Montepulciano, 29 maggio 2002) è stato uno scrittore, filosofo e storico delle religioni italiano, conoscitore di dottrine esoteriche e studioso di mistica occidentale e orientale.