L’importanza della differenza tra avere ed essere

L’aut-aut tra avere ed essere non è un’alternativa che s’imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l’avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura nella quale la meta suprema sia l’avere – e anzi l’avere sempre più – e in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che « vale un milione di dollari », come può esserci un’alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che l’essenza vera dell’essere sia l’avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla.
Pure, i grandi Maestri di Vita hanno fatto proprio dell’aut-aut tra avere ed essere il nucleo centrale dei rispettivi sistemi. Il Buddha insegna che, per giungere allo stadio supremo dello sviluppo umano, non dobbiamo aspirare ai possessi. E Gesù: « Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per me, colui la salverà. Infatti, che giova all’uomo l’aver guadagnato il mondo intero, se poi ha perduto o rovinato se stesso? » (Luca, IX, 24-25). Maestro Eckhart insegnava che non avere nulla e rendersi aperti e « vuoti », fare cioè in modo che il proprio io non ostacoli il cammino, costituisce la condizione per il raggiungimento di ricchezza e forza spirituali. Marx affermava che il lusso è un vizio esattamente come la povertà e che dovremmo proporci come meta quella di essere molto, non già di avere molto. (Mi riferisco qui al vero Marx, all’umanista radicale, non alla sua volgare contraffazione costituita dal « comunismo » sovietico.)
Per molti anni sono rimasto profondamente colpito da questa differenziazione, e sono andato alla ricerca dei suoi fondamenti empirici attraverso lo studio concreto di individui e gruppi con il metodo psicoanalitico; e quel che ho visto mi ha indotto alla conclusione che la differenza in questione, in una con quella tra amore per la vita e amore per la morte, costituisce il problema assolutamente fondamentale dell’esistenza; ancora, che i dati antropologici e psicoanalitici sembrano dimostrare che avere ed essere sono due modalità fondamentali dell’esperienza, il rispettivo vigore delle quali determina le differenze tra i caratteri degli individui e i vari tipi di carattere sociale.

Esempi reperibili in espressioni poetiche

Per introdurre il lettore alla comprensione della differenza tra le modalità esistenziali dell’avere e dell’essere, mi sia lecito servirmi, a mo’ di illustrazione, di due composizioni poetiche di contenuto affine, citate dal defunto D.T. Suzuki in Lectures on Zen Buddhism. Una è un haiku o haikai di un poeta giapponese, Basho, vissuto tra il 1644 e il 1694; l’altra composizione è di un poeta inglese del XIX secolo, Tennyson. Ognuno dei due autori descrive un’esperienza affine: la sua reazione alla vista di un fiore in cui si imbatte durante una passeggiata. I versi di Tennyson suonano:
Flower in a crannied wall,

I pluck you out of the crannies,
I hold you here, root and all, in my hand,

Little flower – but il I could understand

What you are, root and all, and all in all

I should know what God and man is. *

* Letteralmente: « Fiore in un muro screpolato, / Ti strappo dalle fessure, Ti tengo qui, radici e tutto, nella mano, / Piccolo fiore – ma se potessi capire Che cosa sei, radici e tutto, e tutto in tutto, Saprei che cosa è Dio e cosa l’uomo ». [N.d.T.]
Tradotto in inglese, lo haiku di Basho suona all’incirca così:
When I look carefully

I see the nazuna blooming

By the hedge! * *

** Letteralmente: « Se guardo attentamente /Vedo il nazuna che fiorisce/Accanto alla siepe!». Si ricordi che lo haiku consta di soli tre versi di cinque, sette e cinque sillabe rispettivamente (modulo derivato da un antico passatempo Poetico, le cosiddette renga o poesie a catena). La sua traduzione è pressoché impossibile, ma imitazioni se ne possono trovare nella poesia europea contemporanea, specie nella poesia «pura» francese e nell’italiana tra impressionistica ed ermetica, ad esempio nell’essenzialità quasi epigrammatica di Ungaretti di Allegria di naufraghi, 1919. [N.d.T.]
La differenza è enorme. La reazione di Tennyson alla vista del fiore consiste nel desiderio di averlo, e infatti lo « strappa » e lo tiene in mano « radici e tutto ». E, se è vero che Tennyson conclude i suoi versi con la riflessione intellettualistica sulla possibile funzione del fiore al servizio della sua comprensione della natura di Dio e dell’uomo, per quanto riguarda il fiore questo resta ucciso in conseguenza dell’interesse che per esso nutre il poeta. Come risulta dalla sua composizione, Tennyson può venire paragonato allo scienziato occidentale che cerca la verità col metodo consistente nel disgregare la vita.
Di tutt’altro genere è la reazione di Basho al fiore. Egli non desidera coglierlo, anzi neppure lo tocca. Si limita a « guardarlo attentamente » per .« vederlo ». Ecco ora le spiegazioni fornite da Suzuki:

È, probabile che Basho stesse passeggiando lungo una strada di campagna quando scorse, accanto a una siepe, qualcosa di poco appariscente. Avvicinatosi, osservò attentamente quel che aveva scorto e constatò che si trattava di una pianticella selvatica, alquanto insignificante e di norma neppure notata dai passanti. Quello descritto nella composizione poetica, è dunque un banale evento, e un sentimento poetico specifico trova espressione forse soltanto elle ultime due sillabe, che in giapponese si dicono kana. Si tratta di una particella, che spesso si trova connessa a un sostantivo, aggettivo o avverbio, e che designa un certo sentimento di ammirazione, approvazione, dolore o gioia, e che a volte può essere appropriatamente tradotto in inglese * (* L’osservazione di Suzuki si applica in generale a tutte le lingue europee; è necessario tuttavia insistere sul fatto che le traduzioni degli haiku sono sempre ad sensum. [N.d.T.]), con un punto esclamativo, che nello haiku in questione costituisce appunto il culmine dell’intero ultimo verso.
A quanto sembra, Tennyson ha bisogno di possedere il fiore per comprendere i suoi simili e la natura, ma il fatto di averlo comporta, come s’è detto, la distruzione del fiore stesso. Ciò cui Basho aspira, è vedere e non soltanto guardare il fiore: essere tutt’uno con esso, « identificarsi » coi fiore e lasciarlo vivere. La differenza che corre tra Tennyson e Basho trova piena espressione in questa composizione poetica di Goethe:
GEFUNDEN
Ich ging im Walde

So ffir mich hin,

Und nichts zu suchen,

Das war mein Sinn.
Im Schatten sah ich

Ein Bliimchen stehn

Wie Sterne leuchtend,

Wie Auglein schön.
Ich wollt’ es brechen,

Da sagt’ es fein:

Soll ich zum Welken

Gebrochen sein?
Ich grub’s mit allen

Den Würzlein aus,

Zum Garten trug ich’s

Am hübschen Haus.
Und pflanzt’ es wieder

Am stillen Ort;

Nun Zweigt es immer

Und blúht so fort. *
* Letteralmente: Per conto mio nel bosco / Da solo me ne andavo, / E di trovar qualcosa / Certo non m’aspettavo. // Ho scorto una corolla: / Nell’ombra il fiore stava, / Luceva come stella, / Come un occhio attirava. // Per coglierlo son stato, / Ma allora mi ha ammonito: / Quando mi avrai strappato / Vuoi vedermi avvizzito? // Con tutte lo cavai, / Radici e radicina. / Nel giardin lo portai / Accanto alla casina. // E poi l’ ho trasferito / In una quieta zolla; Ed ora è rifiorito, / Foglie nuove rampolla. [N.d.T.]
Goethe, passeggiando senza una meta precisa, è attratto dal piccolo fiore splendente. Confessa di aver provato lo stesso impulso di Tennyson, quello di svellerlo. Ma, a differenza del poeta inglese, Goethe si rende conto che ciò significherebbe uccidere il fiore, e ai suoi occhi questo è talmente vivo, che sente il bisogno di rivolgergli la parola e ammonirlo; e risolve il problema in maniera diversa sia da Tennyson che da Basho: coglie il fiore « con tutte le sue radici » e lo trapianta in modo che là vita della pianticella non vada distrutta. Goethe si colloca, per così dire, a metà,strada tra Tennyson e Bash: per lui, quando s’arriva al dunque, la forza della vita è più possente che la forza della semplice curiosità intellettuale. Inutile soggiungere che, in questa splendida composizione poetica, Goethe
È probabile che Basho stesse passeggiando lungo una strada di campagna quando scorse, accanto a una siepe, qualcosa di poco appariscente. Avvicinatosi, osservò attentamente quel che aveva scorto e constatò che si trattava di una pianticella selvatica, alquanto insignificante e di norma neppure notata dai passanti. Quello descritto nella composizione poetica, è dunque un banale evento, e un/sentimento poetico specifico trova espressione forse soltanto nelle ultime due sillabe, che in giapponese si dicono kana. Si tratta di una particella, che spesso si trova connessa a un sostantivo, aggettivo o avverbio, e che designa un certo sentimento di ammirazione, approvazione, dolore o gioia, e che a volte può essere appropriatamente tradotto in inglese * con un punto esclamativo, che nello haiku in questione costituisce appunto il culmine dell’intero ultimo verso.
A quanto sembra, Tennyson ha bisogno di possedere il fiore per comprendere i suoi simili e la natura, ma il fatto di averlo comporta, come s’è detto, la distruzione del fiore stesso. Ciò cui Basho aspira, è vedere e non soltanto guardare il fiore: essere tutt’uno con esso, « identificarsi » coi fiore e lasciarlo vivere. La differenza che corre tra Tennyson e Bashō trova piena espressione in questa composizione poetica di Goethe:
GEFUNDEN
Ich ging im Walde

So für mich hin,

Und nichts zu suchen,

Das war mein Sinn.
Im Schatten sah ich

Ein Bliimchen stehn,

Wie Sterne leuchtend,

Wie Äuglein schön.
* L’osservazione di Suzuki si applica in generale a tutte le lingue europee; è necessario tuttavia insistere sul fatto che le traduzioni degli haiku sono sempre ad sensum. [N.d.T.]
Ich wollt’ es brechen,

Da sagt’ es fein:

Soll ich zum -Welken

Gebrochen sein?
Ich grub’s mit allen

Den Würzlein aus,

Zum Garten trug ich’s

Am hübschen Haus.
Und pflanzt’ es wieder

Am stillen Ort;

Nun Zweigt es immer

Und blüht so fort. *

* Letteralmente: Per conto mio nel bosco / Da solo me ne andavo, / E di trovar qualcosa / Certo non m’aspettavo. // Ho scorto una corolla: / Nell’ombra il fiore stava. / Luceva come stella, / Come un occhio attirava. // Per coglierlo son stato, / Ma allora mi ha ammonito: / Quando mi avrai strappato / Vuoi vedermi avvizzito? // Con tutte lo cavai, / Radici e radicina. / Nel giardino lo portai / Accanto alla casina. // E poi l’ ho trasferito / In una quieta zolla; Ed ora è rifiorito, / Foglie nuove rampolla. [N.d.T.]
Goethe, passeggiando senza una meta precisa, è attratto dal piccolo ‘fiore splendente. Confessa di aver provato lo stesso impulso di Tennyson, quello di svellerlo. Ma, a differenza del poeta inglese, Goethe si rende conto che ciò significherebbe uccidere il fiore, e ai suoi occhi questo è talmente vivo, che sente il bisogno di rivolgergli la parola e ammonirlo; e risolve il problema in maniera diversa sia da Tennyson che da Bash: coglie il fiore « con tutte le sue radici » e lo trapianta in modo che là vita della pianticella non vada distrutta. Goethe si colloca, per così dire, a metà -strada tra Tennyson e Bashō: per lui, quando s’arriva al dunque, la forza della vita è più possente che la forza della semplice curiosità intellettuale. Inutile soggiungere che, in questa splendida composizione poetica, Goethe esprime il nucleo stesso della sua concezione di studio della natura.
Il rapporto che Tennyson istituisce con il fiore rientra nella modalità dell’avere ovvero del possesso, sia pure non materiale, trattandosi in questo caso del possesso della conoscenza. Il rapporto con il fiore di Basho e Goethe, è invece tale per cui entrambi lo vedono secondo la modalità dell’essere. Con « essere » intendo quell’atteggiamento esistenziale in cui non si ha nulla né si aspira ad avere alcunché, ma si è in una condizione di gioia, si usano le proprie facoltà in maniera creativa, si è tutt’uno con il mondo.
Goethe, il grande innamorato della vita, uno di coloro che con più vigore hanno lottato contro la disgregazione e la meccanizzazione dell’uomo, ha espresso la condizione dell’essere contrapposta a quella dell’avere in molte sue opere. Il Faust è una descrizione, in termini drammatici, del conflitto appunto tra essere e avere (quest’ultimo rappresentato da Mefistofele) , e nella breve composizione seguente Goethe esprime con la massima semplicità la qualità dell’essere:
EIGENTUM
Ich weiß, daß mir nichts angehört

Als der Gedanke, der ungestórt

Aus meiner Seele will fließen,

Und ieder günstige Augenblick,

Den mich ein liebendes Geschick

Von Grund aus läßt genießen. *
* Letteralmente: « POSSESSO. Io so che nulla mi appartiene al mondo Fuorché il pensiero, flutto imperturbato / che vuol sgorgare dall’anima mia,/ e ogni istante giocondo / in cui benigno un fato / di goder mi concede dal profondo ». [N.d.T.]
La differenza tra essere e avere non è essenzialmente, quella tra Oriente e Occidente, ma piuttosto tra una società imperniata sulle persone e una società imperniata sulle cose. L’atteggiamento dell’avere è caratteristico della società industriale occidentale, in cui la sete di denaro, fama e potere, è divenuta la tematica dominante della vita. Società meno alienate, come a esempio la medioevale, quelle degli Zuñis dell’America Centrale e le tribali africane non impregnate delle idee del moderno « progresso », hanno tutti i loro Basho. Non è escluso che, tra qualche altra generazione industrializzata, anche i giapponesi abbiano i loro Tennyson. E non è che l’Uomo Occidentale non sia in grado di comprendere appieno i sistemi orientali, ad esempio il Buddismo Zen (contrariamente a quello che riteneva Jung): accade invece che l’uomo moderno non riesca ad afferrare lo spirito di una società che non si accentri sulla proprietà e la brama di possesso. In effetti, gli scritti di Maestro Eckhart (di altrettanto ardua comprensione di Basho o dello Zen) e gli scritti del Buddha non sono che due dialetti della stessa lingua.

 

Brano estratto da “Avere o Essere?” di Erich Fromm

Erich Seligmann Fromm (Francoforte sul Meno, 23 marzo 1900 – Locarno, 18 marzo 1980) è stato uno psicoanalista e sociologo tedesco.