INTRODUZIONE.
“Il neoplatonico Plotino dimostra per mezzo dei fiori e delle foglie che dal Dio
Supremo, la cui bellezza è invisibile e ineffabile, la Provvidenza giunge fino alle
cose della terra quaggiù. Egli fa osservare che questi oggetti fragili e mortali non
potrebbero essere dotati di una bellezza così immacolata e di così squisita fattura
se essi non promanassero dalla Divinità che senza fine pervade tutte le cose con la
sua invisibile e immutabile bellezza”.
SANT’AGOSTINO, “La Città di Dio”.
[Buona parte di questo capitolo è tratta da una conferenza tenuta nella Cattedrale
di Saint John the Divine a New York il 17 novembre 1977.]
Nel giugno del 1977 ritenni di avere materiale sufficiente per iniziare due libri.
Uno lo chiamai “L’idea evoluzionistica” e l’altro “Ogni scolaretto lo sa” (1). Il
primo doveva essere un tentativo di riesaminare le teorie dell’evoluzione
biologica alla luce della cibernetica e della teoria dell’informazione. Ma quando
cominciai a scriverlo, trovai difficile immaginare un pubblico reale in grado di
capire i presupposti formali e quindi semplici di ciò che andavo dicendo. Mi resi
conto con spaventosa chiarezza che negli Stati Uniti e in Inghilterra, e immagino
in tutto l’Occidente, la scuola evitava con tanta cura tutti i problemi cruciali, che
avrei dovuto scrivere un altro libro per spiegare quelle che a me sembravano idee
elementari che interessano l’evoluzione e quasi ogni altra indagine biologica o
sociale, o addirittura la vita quotidiana fino all’atto stesso del mangiare.
L’istruzione ufficiale non insegna quasi nulla riguardo alla natura di tutte le cose
che si trovano sulle spiagge e nelle foreste di sequoie, nei deserti e nelle pianure.
Perfino molti adulti con figli non sono in grado di fornire una spiegazione
soddisfacente di concetti come entropia, sacramento, sintassi, numero, quantità, struttura, disegno, relazione lineare, nome, classe, pertinenza, energia,
ridondanza, forza, probabilità, parti, tutto, informazione, tautologia, omologia,
massa, messa, spiegazione, descrizione, legge dimensionale, tipo logico, metafora,
topologia, eccetera. Che cosa sono le farfalle? Che cosa sono le stelle di mare? Che
cosa sono la bellezza e la bruttezza?
Mi parve che l’esposizione scritta di alcune di queste idee così elementari si
sarebbe potuta intitolare, con un pizzico d’ironia, “Ogni scolaretto lo sa”.
Tuttavia, mentre me ne stavo a Lindisfarne e lavoravo a questi due manoscritti,
aggiungendo un pezzo ora all’uno ora all’altro, essi pian piano confluirono, e il
risultato fu ciò che penso si chiami una visione “platonica” (2). Mi parve che nello
“Scolaretto” stessi formulando idee estremamente elementari sull'”epistemologia”
(si veda il Glossario), cioè su “come noi conosciamo le cose in genere”. Nel
pronome “noi” comprendevo, naturalmente, la stella di mare e la foresta di
sequoie, l’uovo in corso di segmentazione e il Senato degli Stati Uniti.
E fra le cose in genere che queste creature conoscono, ciascuna a suo modo,
comprendevo: “come crescere secondo una simmetria pentagonale”, “come
sopravvivere a un incendio nella foresta”, “come crescere mantenendo la stessa
forma”, “come apprendere”, “come scrivere una costituzione”, “come inventare
e guidare un’automobile”, “come contare fino a sette” e così via. Meravigliose
creature dotate di conoscenze e abilità quasi miracolose!
Soprattutto, vi comprendevo “come evolvere”, poichè‚ mi pareva che tanto
l’evoluzione quanto l’apprendimento dovessero conformarsi alle stesse regolarità
formali o, come si dice, leggi. Insomma, cominciavo a usare le idee dello
“Scolaretto” per riflettere non sul nostro sapere, ma su quel “più ampio sapere” che
è la colla che tiene insieme le stelle e gli anemoni di mare, le foreste di sequoie e
le commissioni e i consigli umani.
I miei due manoscritti stavano diventando un unico libro, perchè‚ vi è un unico
sapere che caratterizza tanto l’evoluzione quanto gli “aggregati” umani, anche se
le commissioni e le nazioni possono sembrare stupide a genii bipedi come voi e
me.
Stavo superando quel confine che si suppone racchiuda l’essere umano. In altre
parole, mentre scrivevo, la mente diventò, per me, un riflesso di vaste e numerose
porzioni del mondo naturale esterno all’essere pensante.
Nell’insieme, non erano gli aspetti più rozzi, più semplici, più animaleschi e
primitivi della specie umana che venivano riflessi nei fenomeni naturali; erano
piuttosto gli aspetti più complessi, gli aspetti estetici, involuti ed eleganti degli
uomini che riflettevano la natura. Non era la mia avidità, la mia risolutezza, la
mia cosiddetta ‘animalità’, non erano i miei cosiddetti ‘istinti’ e così via che io ravvisavo dall’altra parte di quello specchio, nella ‘natura’. Quello che vi vedevo
erano invece le radici della simmetria umana, la sua bellezza e la sua bruttezza,
l’estetica, la sensibilità stessa dell’uomo e quel pizzico di saggezza che gli è
proprio. La sua saggezza, la grazia del suo corpo, persino la sua abitudine di fare
begli oggetti sono altrettanto ‘animaleschi’ quanto la sua crudeltà. Dopotutto, la
parola stessa “animale” significa “dotato di mente o spirito (“animus”)”.
Su questo sfondo, le teorie dell’uomo che partono dalla psicologia più animalistica
e inadatta si rivelano premesse prime inattendibili per affrontare la domanda del
salmista: “Signore, cos’è l’uomo?”.
Non ho mai potuto accettare il primo passo della storia della Genesi: “In principio
la terra era informe e vuota”. Quella primordiale “tabula rasa” avrebbe
rappresentato un formidabile problema di termodinamica per il miliardo d’anni
successivo. Forse la terra non è mai stata una “tabula rasa” più di quanto non lo sia
uno zigote umano – un uovo fecondato.
Cominciò a sembrarmi che le idee antiquate e tuttora radicate sull’epistemologia,
in particolare su quella umana, fossero il riflesso di una fisica sorpassata e
contrastassero in modo curioso con il poco che sappiamo, o così ci sembra, sulle
cose viventi. Era come se si pensasse che i membri della specie ‘uomo’ fossero
totalmente unici e totalmente materiali sullo sfondo di un universo vivente
generico (anzichè‚ unico) e spirituale (anzichè‚ materiale).
Pare che esista una sorta di legge di Gresham dell’evoluzione culturale, secondo la
quale le idee ultrasemplificate finiscono sempre con lo spodestare quelle più
elaborate, e ciò che è volgare e spregevole finisce sempre con lo spodestare la
bellezza. Ciò nonostante la bellezza perdura.
Cominciavo ad avere l’impressione che la materia organizzata (su quella non
organizzata, ammesso che esista, io non so nulla), anche solo in un insieme di
relazioni semplice come quello che vige in una macchina a vapore con regolatore,
fosse saggia ed elaboratissima, rispetto all’immagine che dello spirito umano
tracciavano comunemente il materialismo ortodosso e gran parte della religione
ortodossa.
Il germe di queste idee era presente nella mia mente fin dall’adolescenza, ma
voglio partire da due situazioni in cui questi pensieri cominciarono a premere per
venire alla luce. Negli Anni Cinquanta avevo due incarichi di insegnamento:
insegnavo agli psichiatri interni di un ospedale per malattie mentali della
Veterans Administration a Palo Alto e ai giovani beatniks della Scuola di Belle
Arti della California a San Francisco. Voglio raccontare come ebbero inizio questi
due corsi e come esordii davanti a due pubblici così diversi fra loro. Se metterete
queste prime due lezioni una accanto all’altra capirete ciò che voglio dire. Agli psichiatri presentai una sfida sotto forma di un piccolo questionario, dicendo
loro che alla fine del corso avrebbero dovuto capire le domande in esso contenute.
La prima chiedeva una breve definizione di (a) “sacramento” e (b) “entropia”.
In generale i giovani psichiatri degli Anni Cinquanta non erano in grado di
rispondere a “nessuna delle due domande”. Oggi ce ne sarebbe qualcuno di più
capace di avventurarsi a parlare dell’entropia (si veda il Glossario). E ci sarà
ancora (o no?) qualche cristiano in grado di dire che cos’è un sacramento.
Avevo offerto alla mia classe le nozioni essenziali di 2500 anni di pensiero
religioso e scientifico. Mi sembrava che, visto che sarebbero diventati dottori
(medici) dell’anima umana, dovessero imparare a muoversi con un certo agio nei
due campi dove si dibattevano le annose questioni, che dovessero familiarizzarsi
con le idee principali tanto della religione quanto della scienza.
Con gli studenti d’arte usai un sistema più diretto. Si trattava di un gruppetto di
dieci o quindici ragazzi e sapevo che mi sarei trovato in un’atmosfera di
scetticismo confinante con l’ostilità. Appena entrato fu evidente che per loro io
ero un’incarnazione del demonio venuto lì per difendere la ragionevolezza della
guerra atomica e degli insetticidi. A quei tempi (e anche oggi?) si credeva che la
scienza “prescindesse dai valori” e non fosse guidata da “emozioni”.
Ma io mi ero preparato. Avevo portato due sacchetti di carta: ne aprii uno e ne
estrassi un granchio appena cotto che posai sul tavolo. Poi affrontai gli studenti
più o meno in questi termini: “Voglio sentire da voi ragioni che mi convincano
che questo oggetto è ciò che resta di un essere vivente. Potreste immaginare di
essere dei marziani: su Marte avete dimestichezza con gli esseri viventi, dato che
voi stessi siete vivi, ma naturalmente non avete mai visto granchi o aragoste. Un
meteorite o altro ha portato un certo numero di oggetti come questo, molti ridotti
in frammenti: voi dovete esaminarli e arrivare alla conclusione che si tratta dei
resti di esseri viventi. Come fareste per arrivarci?”.
Naturalmente, la domanda rivolta agli psichiatri e quella rivolta agli artisti erano
la “stessa domanda”: esiste una specie biologica di entropia?
Entrambe le domande riguardavano l’idea di fondo dell’esistenza di una linea di
separazione tra il mondo dei viventi (dove si tracciano “distinzioni”, e la
“differenza” può essere una causa) e il mondo dei non viventi, il mondo delle palle
da biliardo e delle galassie (dove le ‘cause’ degli eventi sono le forze e gli urti).
Sono i due mondi che Jung (seguendo gli gnostici) chiama rispettivamente
“creatura” e “pleroma” (3). La mia domanda era: qual è la differenza tra il mondo
fisico del “pleroma”, dove le forze e gli urti costituiscono una base esplicativa
sufficiente, e la “creatura”, dove non si può capir nulla senza invocare “differenze”
e “distinzioni”? Nella mia vita ho messo la descrizione dei bastoni, delle pietre, delle palle da
biliardo e delle galassie in una scatola, il pleroma, e li ho lasciati lì. In un’altra
scatola ho messo le cose viventi: i granchi, le persone, i problemi riguardanti la
bellezza, quelli riguardanti la differenza. Argomento di questo libro è il contenuto
della seconda scatola.
Qualche tempo fa me la sono presa con i difetti dell’istruzione scolastica
occidentale. Stavo scrivendo ai miei colleghi del Board of Regents dell’Università
della California e nella lettera mi si insinuò questa frase:
“Infrangete la struttura che connette gli elementi di ciò che si apprende e
distruggerete necessariamente ogni qualità”.
Vi offro la locuzione “la struttura che connette” come sinonimo, come altro
possibile titolo di questo libro.
“La struttura che connette”. Perchè‚ le scuole non insegnano quasi nulla su questo
argomento? Forse perchè‚ gli insegnanti sanno di essere condannati a rendere
insipido, a uccidere tutto ciò che toccano e sono quindi saggiamente restii a
toccare o insegnare ogni cosa che abbia importanza vera e vitale? Oppure
uccidono ciò che toccano “proprio perchè‚” non hanno il coraggio di insegnare
nulla che abbia un’importanza vera e vitale? Dov’è l’errore?
Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e
tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e
con lo schizofrenico dall’altra?
Voglio spiegarvi perchè‚ è tutta la vita che faccio il biologo, che cos’è che ho
sempre tentato di studiare. Quali pensieri posso offrire che riguardino il
complesso del mondo biologico in cui viviamo e in cui riceviamo la nostra
esistenza? Come viene costruito?
Ciò che si deve dire a questo punto è difficile, appare del tutto “vuoto” ed è
d’importanza grandissima e assai profonda per voi come per me. In questo
momento storico credo che esso sia importante per la sopravvivenza di tutta la
biosfera, che come sapete è minacciata.
Qual è la struttura che connette tutte le creature viventi?
Torniamo al mio granchio e alla mia classe di “beatniks”. Era una vera fortuna che
insegnassi a persone che non erano scienziati e che anzi avevano una inclinazione
mentale antiscientifica. Propendevano tutti, anche se in maniera informe e
inesperta, per un approccio di tipo estetico. Definirei, per il momento, questa
parola dicendo che essi “non erano” come Peter Bell, il personaggio di cui
Wordsworth cantava
“A primrose by the river’s brimA yellow primrose was to him,
And it was nothing more”.
[Una primula sulla proda del fiume / era per lui una primula gialla, / null’altro
era.]
Anzi, essi si sarebbero accostati alla primula con “empatia” e “riconoscendosi
affini” ad essa. Per “estetico” intendo sensibile alla “struttura che collega”. Vedete
dunque com’ero fortunato. Forse per caso misi davanti a loro quello che era (a mia
insaputa) un problema estetico: “In che modo siete in relazione con questa
creatura? Quale struttura vi collega con essa?”
Collocandoli su un pianeta immaginario, “Marte”, li mettevo nell’impossibilità di
pensare ad aragoste, amebe, cavoli e così via, e riportavo forzatamente la diagnosi
della vita all’identificazione con il proprio io vivente: “Siete voi che portate i
segni di riferimento, i criteri che vi permettono di esaminare il granchio e
scoprire che esso pure porta gli stessi segni”. La mia domanda era assai più
complessa di quanto io non sapessi.
I ragazzi esaminarono il granchio, e la prima cosa che osservarono fu che era
“simmetrico”, cioè che la parte destra somigliava alla sinistra.
“Benissimo. Volete dire che è “composto”, come un quadro?”. (Silenzio).
Poi osservarono che una chela era più grossa dell’altra: dunque “non era”
simmetrico.
A mo’ di suggerimento, dissi che se con i meteoriti fossero arrivati molti di quegli
oggetti, avrebbero scoperto che in quasi tutti gli individui la chela più grossa si
trovava dalla stessa parte (destra o sinistra). (Silenzio. “Dove vuole arrivare
Bateson?”).
Tornando alla simmetria, uno disse: “Sì, una chela è più grossa dell’altra, ma
entrambe sono composte delle stesse parti”.
Ah! Com’è bella e nobile questa osservazione, con che prontezza il ragazzo aveva
educatamente gettato nel cestino dei rifiuti l’idea che le dimensioni potessero
avere un’importanza primaria o radicale e si era concentrato sulla “struttura che
connette”. Aveva scartato un’asimmetria di dimensioni a favore di una più
profonda simmetria di relazioni formali.
Sissignore, ciò che caratterizza (brutta parola) le due chele è proprio il fatto che
esse incarnano “relazioni simili tra le parti”. Mai quantità, sempre contorni, forme
e relazioni. Ecco davvero qualcosa che caratterizzava il granchio come
appartenente alla “creatura”, come cosa vivente.
In seguito si vide che non solo le due chele sono costruite sullo stesso ‘progetto di
base’ (cioè su insiemi corrispondenti di relazioni fra parti corrispondenti), ma che queste relazioni fra parti corrispondenti si estendono alla serie degli arti motori.
In ciascuno di essi erano riconoscibili elementi che corrispondevano agli elementi
della chela.
E naturalmente la stessa cosa vale per il nostro corpo: l’omero, nel braccio,
corrisponde al femore nella coscia e la coppia radio-ulna corrisponde alla coppia
tibia-perone; le ossa del carpo corrispondono a quelle del tarso; le dita della mano
a quelle del piede.
L’anatomia del granchio è ripetitiva e ritmica; come la musica, essa è ripetitiva
con modulazioni. Anzi, la direzione dalla testa alla coda corrisponde a una
sequenza temporale: in embriologia la testa è più antica della coda. E’ possibile un
flusso di informazioni in direzione antero-posteriore.
I biologi parlano di “omologia” filogenetica (si veda il Glossario) per quella “classe”
di fatti di cui è un esempio la somiglianza formale tra le ossa dei miei arti e quelle
di un cavallo. Un altro esempio è la somiglianza formale tra gli arti di un granchio
e quelli di un’aragosta.
Questa è una classe di fatti; un’altra classe di fatti (in qualche modo simile?) è
quella che i biologi chiamano “omologia seriale”. Ne è un esempio la ripetizione
ritmica con cambiamenti che passando da un membro all’altro percorre tutta la
lunghezza dell’animale (granchio o uomo); un secondo esempio (forse non
proprio dello stesso ordine perchè‚ diverso in relazione al tempo) sarebbe la
simmetria bilaterale dell’uomo o del granchio (4).
Ricominciamo daccapo. Le parti di un granchio sono connesse secondo varie
strutture di simmetria bilaterale, di omologia seriale e così via. Chiamiamo queste
strutture “interne” al singolo granchio che cresce “connessioni di primo ordine”.
Ma se ora consideriamo il granchio e l’aragosta, troviamo di nuovo connessioni
strutturali. Chiamiamole “connessioni di secondo ordine”, o omologie
filogenetiche.
Consideriamo ora l’uomo o il cavallo: anche qui osserviamo simmetrie e omologie
seriali. Quando li consideriamo insieme, riscontriamo la stessa comunanza
interspecifica di strutture con qualche differenza (omologia filogenetica). E,
naturalmente, troviamo anche che alle dimensioni si preferiscono le forme, le
strutture e le relazioni. In altri termini, quando si analizza questa distribuzione di
somiglianze formali, si scopre che l’anatomia nei suoi tratti generali presenta tre
livelli o tipi logici di proposizioni descrittive:
1. Per ricavare connessioni di primo ordine si devono confrontare le parti di ogni
membro della “creatura” con altre parti dello stesso individuo. 2. Per scoprire relazioni simili tra le parti (ossia per ottenere connessioni di
secondo ordine) si devono confrontare i granchi con le aragoste o gli uomini con i
cavalli.
3. Per dedurre connessioni di terzo ordine si deve confrontare il “confronto” tra
granchi e aragoste con quello tra uomo e cavallo.
Abbiamo costruito una scala di come si deve pensare a… a che cosa? Ah, già, alla
struttura che connette.
La mia tesi fondamentale può essere ora espressa in questi termini: “la struttura
che connette è una metastruttura”. E’ una struttura di strutture. E’ questa
metastruttura che definisce l’asserzione generale che sono effettivamente “le
strutture che connettono”.
Qualche pagina sopra ho avvertito che avremmo incontrato il vuoto, e difatti
eccolo: la mente è vuota; essa è niente, un non-ente. Esiste solo nelle sue idee, che
sono anch’esse non-enti. Solo le idee sono immanenti, incarnate nei loro esempi,
e gli esempi a loro volta sono non-enti. La chela, “come esempio”, non è la “Ding
an sich”; per l’appunto “non è” la “cosa in sè”. E’ invece ciò che la mente ne fa,
cioè un “esempio” di questa o quella cosa.
Torniamo alla classe di giovani artisti.
Ricorderete che avevo “due” sacchetti di carta: in uno c’era il granchio, nell’altro
una splendida conchiglia. Da quale indizio, chiesi loro, potevano arguire che
quella conchiglia a spirale aveva fatto parte di un essere vivente?
Quando aveva circa sette anni, mia figlia Cathy ricevette in regalo un occhio di
gatto montato ad anello. Vedendoglielo al dito, le chiesi cos’era, e lei mi rispose
che era un occhio di gatto.
“Ma che cos’è?” insistei.
“Be’, so che non è l’occhio di un gatto. Sarà una pietra”.
“Toglitelo e guarda com’è dietro” dissi.
Fece come le avevo detto ed esclamò: “Oh, c’è sopra una spirale! Dev’essere
appartenuto a qualcosa di “vivo”.
Questi dischi verdastri sono in realtà gli opercoli di una specie di chiocciola dei
mari tropicali. Alla fine della seconda guerra mondiale i soldati ne portarono a
casa moltissimi dal Pacifico.
La premessa maggiore di Cathy, che tutte le spirali di questo mondo, tranne i
gorghi, le galassie e i vortici di vento, sono fatte da esseri viventi, era giusta. Su
questo argomento esiste un’ampia bibliografia, che qualche lettore potrebbe avere
interesse a consultare (le parole chiave sono “serie di Fibonacci” e “sezione
aurea”). Il risultato di tutto ciò è che la spirale è una figura che “conserva la sua forma
(cioè le sue proporzioni) man mano che cresce” in una dimensione, per successive
aggiunte all’estremità libera. Perchè‚ dovete sapere che non esistono spirali
veramente statiche.
Ma i miei studenti si trovavano in difficoltà: essi cercavano tutte quelle belle
caratteristiche formali che avevano scoperto con gioia nel granchio; pensavano
che ciò che l’insegnante voleva fosse la simmetria formale, la ripetizione delle
parti, la ripetizione modulata e così via. Ma la spirale “non aveva” simmetria
bilaterale; non era segmentata.
Essi dovevano scoprire (a) che ogni simmetria e ogni segmentazione erano in
qualche modo un risultato, una conclusione del fenomeno della crescita; (b) che la
crescita ha le sue esigenze formali; e (c) che una di queste è soddisfatta (in senso
matematico, ideale) dalla forma a spirale.
Così la conchiglia porta in sè il “procronismo” del mollusco – la registrazione di
come, “nel proprio passato”, ha risolto in tempi successivi un problema formale di
costituzione di una struttura (si veda il Glossario). Anch’essa dichiara la propria
appartenenza alla struttura di strutture che connette.
Tutti gli esempi che ho dato fin qui – le strutture che appartengono alla struttura
che connette, l’anatomia del granchio e dell’aragosta, della conchiglia, dell’uomo
e del cavallo – erano superficialmente statici. Erano forme congelate, risultato sì di
un cambiamento soggetto a regole, ma ormai immobili, come le figure dell'”Ode
on a Grecian Urn” di Keats:
“Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goalyet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
Forever with thou love, and she be fair!”
Siamo stati abituati a immaginare le strutture, salvo quelle della musica, come
cose fisse. Ciò è più facile e comodo, ma naturalmente è una sciocchezza. In
verità, il modo giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di
pensarla “in primo luogo” (qualunque cosa ciò voglia dire) come una danza di parti interagenti e solo in secondo luogo vincolata da limitazioni fisiche di vario
genere e dai limiti imposti in modo caratteristico dagli organismi.
C’è una storia che ho già raccontato altrove e che voglio raccontare di nuovo. Un
tale voleva arrivare a conoscere la mente, non in natura, bensì in un suo grande
calcolatore personale. Gli chiese (sicuramente nel suo Fortran più forbito):
“Calcoli che penserai mai come un essere umano?”. La macchina allora si mise al
lavoro per analizzare le proprie abitudini di calcolo; infine stampò la risposta su
un foglio di carta, come fanno queste macchine. L’uomo corse a vedere la risposta
e trovò, nitidamente stampate, le seguenti parole: QUESTO MI RICORDA UNA
STORIA.
Una storia è un piccolo nodo o complesso di quella specie di connessione che
chiamiamo “pertinenza”. Negli Anni Sessanta gli studenti lottavano per la
“pertinenza”, e a mio avviso un qualunque A è pertinente a un qualunque B se A e
B sono entrambi parti o componenti della stessa ‘storia’.
Di nuovo la connessione ci si presenta a più di un livello:
Primo, il nesso tra A e B per il fatto che sono componenti della stessa storia.
Poi, la connessione tra le persone in quanto tutti pensano in termini di storie.
(Perchè‚ il calcolatore aveva proprio ragione: è così che pensa la gente).
Voglio dimostrare ora che, qualunque sia il significato della parola “storia” nella
storia che vi ho raccontato, il fatto di pensare in termini di storie non fa degli
esseri umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle stelle di mare,
dalle palme e dalle primule. Al contrario, se il mondo è connesso, se in ciò che
dico ho sostanzialmente ragione, allora “pensare in termini di storie” dev’essere
comune a tutta la mente o a tutte le menti, siano esse le nostre o quelle delle
foreste di sequoie e degli anemoni di mare.
Il contesto e la pertinenza debbono essere caratteristici non solo di tutto il
cosiddetto comportamento (le storie che si manifestano all’esterno in ‘azione’), ma
anche di tutte le storie interne, le sequenze del processo costitutivo dell’anemone
di mare. La sua embriologia dev’essere fatta in qualche modo della sostanza di cui
son fatte le storie. E risalendo ancor più indietro, il processo evolutivo che,
attraverso milioni di generazioni, ha generato l’anemone di mare, così come ha
generato voi e me, anche questo processo dev’essere fatto della sostanza di cui son
fatte le storie. In ogni gradino della filogenesi e fra i vari gradini dev’esserci
pertinenza.
Dice Prospero: “Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni”, e certo
egli ha quasi ragione. Ma io penso a volte che i sogni siano solo frammenti di
quella sostanza. E’ come se la sostanza di cui siamo fatti fosse del tutto trasparente
e quindi non percettibile, e come se le uniche apparenze da noi avvertibili fossero le crepe e i piani di frattura di quella matrice trasparente. I sogni, le percezioni e
le storie sono forse le crepe e le irregolarità della matrice uniforme e senza tempo.
E’ questo che voleva dire Plotino quando parlava di una “invisibile e immutabile
bellezza” che “pervade tutte le cose”?
Che cos’è una storia, che possa connettere gli A e i B, sue parti? Ed è vero che il
fatto generale che le parti sono connesse in questo modo sta alla radice stessa di
ciò che è l’esser vivi? Vi propongo la nozione di “contesto”, di “struttura nel
tempo”.
Che accade quando, ad esempio, vado da uno psicoanalista freudiano? Entro in
qualcosa che anche creo e che chiameremo “contesto”, delimitato e isolato almeno
simbolicamente (come un frammento del mondo delle idee) dalla chiusura della
porta. La geografia della stanza e della porta viene usata come rappresentazione di
uno strano messaggio non geografico.
Ma io arrivo lì con delle storie: non solo con una riserva di storie da raccontare
all’analista, ma con storie che fanno parte del mio stesso essere: le strutture e le
sequenze dell’esperienza infantile sono parte integrante di me. Mio padre faceva
questo e questo, mia zia faceva così e cosà, e ciò che essi facevano accadeva fuori
di me. Ma quali che siano state le cose da me apprese, il mio apprendere si è
verificato all’interno della mia sequenza esperienziale di ciò che facevano quelle
persone importanti, mia zia e mio padre.
E ora eccomi dall’analista, un’altra persona che diventa ora importante, che deve
essere vista come un padre (o forse un anti-padre), poichè‚ nulla ha significato se
non è visto in un qualche contesto. Questo modo di vedere è chiamato
“trasferimento” ed è un fenomeno generale dei rapporti umani. Si tratta di una
caratteristica universale di ogni interazione tra persone, perchè, in fin dei conti,
la forma di ciò che è accaduto ieri tra voi e me rimane e informa di sè il nostro
rapporto di oggi. E questo informare è, in linea di principio, un “trasferimento”
dall’apprendimento passato.
Questo fenomeno del trasferimento è un esempio di come sia nel vero il
calcolatore a percepire che noi pensiamo in storie. L’analista deve venir stirato o
scorciato sul letto di Procruste delle storie d’infanzia del paziente. Ma riferendomi
alla psicoanalisi, io ho anche ristretto l’idea di “storia”. Ho avanzato l’ipotesi che
essa abbia a che fare con il “contesto”, concetto cruciale, in parte non definito e
quindi da esaminare.
E il “contesto” è legato a un’altra nozione non definita che si chiama
“significato”. Prive di contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato.
Ciò vale non solo per la comunicazione verbale umana ma per qualunque
comunicazione, per tutti i processi mentali, per tutta la mente, compreso ciò che dice all’anemone di mare come deve crescere e all’ameba che cosa fare il
momento successivo.
Quella che sto tracciando è un’analogia tra il contesto nell’ambito superficiale e in
parte conscio delle relazioni personali e il contesto nei processi molto più
profondi e arcaici dell’embriologia e dell’omologia. La mia tesi è che, qualunque
sia il suo significato, la parola “contesto” è una parola appropriata, una parola
“necessaria” alla descrizione di tutti questi processi in lontana relazione tra loro.
Consideriamo l’omologia alla rovescia. Tradizionalmente, per dimostrare che c’è
stata evoluzione si citano casi di omologia. Io farò il contrario: supporrò che
l’evoluzione ci sia stata, e passerò a indagare la natura dell’omologia. Chiediamoci:
che cos'”è” un dato organo alla luce della teoria evoluzionistica?
“Che cos’è la proboscide di un elefante?” Che cos’è filogeneticamente? Che cosa le
ha ordinato di essere la genetica?
Come sapete, la risposta è che la proboscide di un elefante è il suo “naso” (lo
sapeva perfino Kipling!). E ho messo “naso” tra virgolette perchè‚ la proboscide
viene definita da un processo interno di comunicazione nella crescita. La
proboscide è un “naso” in virtù di un processo di comunicazione: è il contesto
della proboscide che la identifica come naso. Ciò che sta tra due occhi e sopra una
bocca è un “naso”, punto e basta. E’ il “contesto” che fissa il significato, e
dev’essere sicuramente il contesto ricevente a dar significato alle istruzioni
genetiche. Quando chiamo questa cosa “naso” e quella “mano”, io cito – magari a
sproposito – le istruzioni di sviluppo nell’organismo in crescita, e cito
l’interpretazione data a questo messaggio dai tessuti che l’hanno ricevuto.
Alcuni preferirebbero definire i nasi mediante la loro ‘funzione’, l’olfatto. Se però
analizziamo queste definizioni arriviamo allo stesso risultato impiegando un
contesto temporale in luogo di uno spaziale. All’organo viene dato un significato
attribuendogli un determinato ruolo in sequenze di interazione tra la creatura e
l’ambiente. Chiamo questo contesto “temporale”. La classificazione temporale dei
contesti interseca la classificazione spaziale; ma in embriologia la prima
definizione dev’essere sempre in termini di relazioni formali. La proboscide del
feto, in genere, non sente alcun odore. L’embriologia è “formale”.
Voglio illustrare ancora brevemente questa specie di connessione, questa struttura
connettiva, citando una scoperta di Goethe. Goethe era un valente botanico, assai
abile nel riconoscere il non banale (cioè nel riconoscere le strutture che
connettono), il quale mise ordine nel vocabolario dell’anatomia comparata delle
piante. Egli scoprì che definire una ‘ foglia’ come “una cosa piatta e verde” o un
‘picciolo’ come “una cosa cilindrica” non è soddisfacente. Il modo di procedere
nella definizione – che è senza dubbio il modo in cui vanno le cose nel profondo dei processi di crescita della pianta – consiste nell’osservare che le gemme (cioè i
piccioli appena nati) si formano nelle ascelle delle foglie. Partendo da qui il
botanico formula le definizioni sulla base delle relazioni tra picciolo, foglia,
gemma, ascella, eccetera.
“Un picciolo è ciò che porta le foglie”.
“Una foglia è ciò che ha una gemma nell’ascella”.
“Un picciolo è ciò che in quella stessa posizione era prima una gemma”.
Tutto questo è noto (o dovrebbe esserlo); ma il passo seguente forse è nuovo.
Nell’insegnamento della lingua vi è un’analoga confusione che non è mai stata
chiarita. Forse oggi i linguisti di professione sanno come stanno le cose, ma a
scuola si continuano a insegnare sciocchezze: i bambini si sentono dire che il
“sostantivo” è un “nome di persona, di luogo o di cosa”, che il “verbo” è “una
parola che indica un’azione” e così via. Imparano, cioè, in tenera età che una cosa
la si definisce mediante ciò che, si suppone, essa “è” in sè, e non mediante le sue
relazioni con le altre cose.
Quasi tutti noi ricordiamo di aver sentito dire che un sostantivo è “un nome di
persona, di luogo o di cosa”. E ricordiamo la noia mortale che ci procurava
l’analisi grammaticale e logica delle frasi. Oggi tutto ciò andrebbe cambiato: ai
bambini si potrebbe dire che un sostantivo è una parola che sta in una certa
relazione con un predicato, che un verbo sta in una certa relazione con un
sostantivo, il suo soggetto e così via. Alla base della definizione potrebbe stare la
relazione, e allora qualunque bambino sarebbe in grado di capire che nella frase
“Andare” è un verbo” c’è qualcosa che non va.
Ricordo la mia noia quando dovevo analizzare le frasi e la noia, più tardi a
Cambridge, di dover studiare l’anatomia comparata. Così come venivano
insegnate, erano tutt’e due materie di un’irrealtà straziante. “Avrebbero potuto”
dirci qualcosa sulla struttura che connette: che ogni comunicazione ha bisogno di
un contesto, che senza contesto non c’è significato, che i contesti conferiscono
significato perchè‚ c’è una classificazione dei contesti. L’insegnante avrebbe
potuto dimostrare che la crescita e la differenziazione devono essere controllate
dalla comunicazione. Le forme degli animali e delle piante sono trasformazioni di
messaggi. Il linguaggio è di per sè una forma di comunicazione. La struttura
immessa a un’estremità dev’essere in qualche modo rispecchiata come struttura
all’uscita. L’anatomia “deve” contenere qualcosa di analogo alla grammatica,
poichè‚ tutta l’anatomia è una trasformazione di materiale di messaggio, che deve
essere conformato in modo contestuale. E infine, “conformazione contestuale”
non è che un sinonimo di “grammatica”. Torniamo così alle strutture di connessione e alla proposizione più astratta, più
generale (e vuotissima) che, in effetti, esiste una struttura delle strutture di
connessione.
Questo libro è costruito sull’opinione che noi facciamo parte di un mondo
vivente. In epigrafe a questo capitolo ho messo un passo di sant’Agostino in cui il
santo dichiara esplicitamente la sua epistemologia. Oggi una simile dichiarazione
suscita nostalgia: la maggior parte di noi ha perso quel senso di unità di biosfera e
umanità che ci legherebbe e ci rassicurerebbe tutti con un’affermazione di
bellezza. La maggior parte di noi oggi non crede che, anche con gli alti e bassi che
segnano la nostra limitata esperienza, la più vasta totalità sia fondamentalmente
bella.
Abbiamo perduto il nocciolo del cristianesimo. Abbiamo perduto Shiva, il dio
danzante dell’Olimpo induista, la cui danza a livello banale è insieme creazione e
distruzione, ma nella totalità è bellezza. Abbiamo perduto Abraxas, il dio bello e
terribile del giorno e della notte dello gnosticismo. Abbiamo perduto il
totemismo, il senso del parallelismo tra l’organizzazione dell’uomo e quella degli
animali e delle piante. Abbiamo perduto persino il Dio Che Muore.
Stiamo cominciando a giocherellare con le idee dell’ecologia, e benché‚ subito le
degradiamo a commercio o a politica, c’è se non altro ancora un impulso nel cuore
degli uomini a unificare e quindi a santificare tutto il mondo naturale di cui noi
siamo parte.
Notate, però, che nel mondo vi sono state, e ancora vi sono, molte epistemologie,
diverse e addirittura contrastanti, che hanno però sostenuto tutte l’idea di
un’unità di fondo e, benché‚ ciò sia meno certo, hanno anche sostenuto l’idea che
questa unità di fondo è “estetica”. L’uniformità di questi pareri fa sperare che forse
la grande autorità della scienza quantitativa non basti per negare l’idea di una
bellezza unificatrice fondamentale.
Io mi attengo al presupposto che l’aver noi perduto il senso dell’unità estetica sia
stato, semplicemente, un errore epistemologico. Sono convinto che questo errore
è forse più grave di tutte le piccole follie che caratterizzano quelle più vecchie
epistemologie che concordavano sull’unità fondamentale.
Parte della storia di come abbiamo perduto il senso dell’unità è stata raccontata
con eleganza da Lovejoy in “The Great Chain of Being” (5), che ripercorre questa
storia dalla filosofia greca classica a Kant e agli inizi dell’idealismo tedesco
nell’Ottocento. E’ la storia dell’idea che il mondo è/fu creato fuori del tempo sulla
“logica deduttiva”, idea evidente nella citazione da “La Città di Dio” posta in
epigrafe: in cima alla catena deduttiva sta la Mente suprema, o Logos; sotto vi sono gli angeli, poi gli uomini, poi le scimmie e così via fino alle piante e alle
pietre. Tutto è in ordine deduttivo ed è legato in quell’ordine da una premessa che
prefigura la nostra seconda legge della termodinamica. Questa premessa asserisce
che ciò che è ‘più perfetto’ non può mai essere generato da ciò che è ‘meno
perfetto’.
Nella storia della biologia fu Lamarck (6) a capovolgere la grande catena
dell’essere: sostenendo che la mente è immanente nelle creature viventi e che ne
ha potuto determinare le trasformazioni, egli si sottrasse alla premessa di carattere
negativo che il perfetto deve sempre precedere l’imperfetto. Egli avanzò poi una
teoria del “trasformismo” (che noi chiameremmo “evoluzione”) che, partendo
dagli infusori (protozoi), procedeva fino all’uomo e alla donna.
La biosfera di Lamarck era sempre una “catena”; l’unità epistemologica rimaneva,
nonostante lo spostamento d’accento da un Logos trascendente a una mente
immanente.
I cinquant’anni successivi videro la crescita esponenziale della Rivoluzione
industriale, il trionfo dell’Ingegneria sulla Mente, sicché‚ l’epistemologia
culturalmente in armonia con “On the Origin of Species” (1859) fu il tentativo di
eliminare la mente come principio esplicativo. Una battaglia contro i mulini a
vento.
Vi furono proteste molto più profonde delle strida dei fondamentalisti. Samuel
Butler, il più acuto critico di Darwin, vide che negare la mente come principio
esplicativo era inammissibile e tentò di ricondurre la teoria evoluzionistica al
lamarckismo. Ciò tuttavia non poteva andare, a causa dell’ipotesi (condivisa
perfino da Darwin) dell’ “ereditarietà dei caratteri acquisiti”. Questa ipotesi – che
le risposte di un organismo al proprio ambiente potrebbero influire sul patrimonio
genetico della prole – era sbagliata.
Cercherò di dimostrare che questo era in realtà un errore epistemologico, una
confusione di tipi logici e proporrò una definizione di “mente” assai diversa dalle
nozioni vaghe che ne avevano sia Darwin sia Lamarck. In particolare accetterò il
presupposto che il pensiero somigli all’evoluzione in quanto processo stocastico (si
veda il Glossario).
In ciò che viene presentato in questo libro, il posto della struttura gerarchica della
Grande Catena dell’Essere verrà preso dalla struttura gerarchica del pensiero, che
Bertrand Russell ha chiamato “gerarchia dei tipi logici”, e si tenterà di proporre
una sacra unità della biosfera che contenga meno errori epistemologici delle
versioni che di essa sono state presentate dalle varie religioni storiche.
L’importante è che, giusta o sbagliata, questa epistemologia sarà “esplicita”. Sarà
così possibile criticarla in modo altrettanto esplicito. Il proposito immediato di questo libro è dunque di costruire un quadro di come il
mondo è collegato nei suoi aspetti mentali. Come si accordano e si collegano fra di
loro le idee, le informazioni, gli stadi di coerenza logica o pragmatica, e via
dicendo? In che relazione sta la logica, il procedimento classico per costruire
catene di idee, con un mondo esterno di cose e creature, di parti e di totalità? Le
idee si presentano davvero in catene oppure questa struttura “lineare” (si veda il
Glossario) viene loro imposta da studiosi e filosofi? Com’è collegato il mondo della
logica, che evita il “ragionamento circolare”, con un mondo in cui le serie causali
circolari sono piuttosto la regola che l’eccezione?
Oggetto dell’indagine e della descrizione è una vasta rete o matrice di materiale di
comunicazione e di tautologie, premesse e esemplificazioni astratte, tutti collegati
tra di loro.
Ma oggi, nel 1979, non esiste alcun metodo convenzionale per descrivere un
simile intrico. Non sappiamo neppure da che parte cominciare.
Cinquant’anni fa si sarebbe pensato che i procedimenti migliori per tentare questa
impresa fossero o logici o quantitativi o di entrambi i generi. Vedremo invece che,
come dovrebbe sapere ogni scolaretto, la logica è appunto incapace di affrontare i
circuiti ricorsivi senza generare paradossi, e che le quantità appunto non sono la
sostanza dei sistemi comunicanti complessi.
In altre parole, la logica e la quantità si dimostrano strumenti inadeguati per
descrivere gli organismi, le loro interazioni e la loro organizzazione interna. La
natura particolare di questa inadeguatezza verrà mostrata a tempo debito; per il
momento, chiedo solo al lettore di accettare per vera l’asserzione che oggi, nel
1979, non esiste alcun metodo convenzionale per spiegare o anche solo
descrivere, i fenomeni dell’organizzazione biologica e dell’interazione umana.
Trent’anni fa John von Neumann, nel suo “Theory of Games” (7), osservò che le
scienze del comportamento non posseggono alcun modello ridotto che possa fare
per la biologia e la psichiatria ciò che la particella newtoniana ha fatto per la
fisica.
Tuttavia, vi sono molti pezzetti sparsi di saggezza, che faciliteranno il compito di
questo libro. Adotterò quindi il metodo del piccolo Jack Horner della filastrocca:
estrarrò le prugne a una a una e le metterò in bella mostra una accanto all’altra,
costruendo uno spiegamento dal quale potremo prendere le mosse per elencare
alcuni criteri fondamentali del processo mentale.
Nel capitolo 2, “Ogni scolaretto sa che…”, raccoglierò, a beneficio del lettore,
alcuni esempi di quelle che considero verità semplici e necessarie: necessarie, in primo luogo, se lo scolaretto deve imparare a pensare; e ancora necessarie perchè‚
come io credo, il mondo biologico si innesta su queste semplici proposizioni.
Nel capitolo 3 procederò in modo analogo, richiamando però l’attenzione del
lettore su un certo numero di casi in cui due o più sorgenti di informazione si
combinano per generare informazione di tipo diverso da quella che si trovava in
ciascuna sorgente presa da sola.
Nessuna delle scienze esistenti si occupa oggi espressamente della combinazione
di informazioni; io invece cercherò di dimostrare che il processo evolutivo deve
dipendere da questi doppi incrementi di informazione. Ogni passo dell’evoluzione
è un’aggiunta di informazioni a un sistema già esistente. Per questo motivo le
combinazioni, le armonie e le discordanze tra elementi e strati di informazione
successivi presenteranno molti problemi di sopravvivenza e determineranno
molte direzioni di cambiamento.
Il capitolo 4, “I criteri del processo mentale”, tratterà le caratteristiche che
sembrano sempre combinarsi nella nostra biosfera terrestre per costituire la
mente. Il resto del libro si concentrerà in particolare su alcuni problemi di
evoluzione biologica.
La tesi che informa tutto il libro è che “pensare” a molti problemi di ordine e di
disordine nell’universo biologico sia possibile e proficuo e che oggi noi
possediamo un notevole corredo di strumenti concettuali di cui non facciamo uso
in parte perchè‚ siamo tutti professori e scolaretti all’oscuro di molte conquiste
concettuali direttamente accessibili, in parte perchè‚ siamo riluttanti ad accettare
le necessarie conseguenze di una chiara visione dei dilemmi umani.
NOTE ALL’INTRODUZIONE.
(1). Una delle frasi preferite da Lord Macaulay, cui si attribuisce il detto “Ogni
scolaretto sa chi imprigionò Montezuma e chi strangolò Atahualpa”.
(2). La più famosa scoperta di Platone riguardava la ‘realtà’ delle idee.
Comunemente si pensa che un piatto sia ‘reale’ ma che la sua rotondità sia ‘solo
un’idea’. Ma Platone osservò, primo, che il piatto non è proprio rotondo e,
secondo, che nel mondo si può discernere un grandissimo numero di oggetti che
simulano la ‘rotondità’ o ad essa si approssimano o tendono. Egli quindi asserì che
la ‘rotondità’ è “ideale” (l’aggettivo derivato da “idea”) e che queste componenti
ideali dell’universo costituiscono la base esplicativa reale delle sue forme e della
sua struttura. Per lui, come per William Blake e molti altri, quell’ “universo corporeo” che i nostri giornali considerano ‘reale’ era una specie di emanazione di
ciò che è veramente reale, cioè delle forme e delle idee. In principio era l’idea.
(3). C. G. Jung, “Septem Sermones ad Mortuos”, London, Stuart & Watkins, 1961.
(4). Nel caso seriale è facile immaginare che ciascun segmento anteriore possa
fornire informazioni al segmento successivo che si sta sviluppando
immediatamente dietro di esso. Queste informazioni potrebbero determinare
l’orientamento, la grandezza e addirittura la forma del nuovo segmento. In fin dei
conti ciò che è anteriore nello spazio è anche antecedente nel tempo e potrebbe
essere l’antecedente o modello quasi-logico del proprio successore. La relazione
tra anteriore e posteriore sarebbe allora asimmetrica e complementare. E’
concepibile, anzi plausibile, che la relazione simmetrica fra destra e sinistra sia
doppiamente asimmetrica, cioè che ciascuna eserciti un qualche controllo
complementare sullo sviluppo dell’altra. Questa coppia costituirebbe allora un
circuito di controllo “reciproco”. E’ sorprendente che noi non sappiamo quasi
nulla sul vasto sistema di comunicazione che deve certamente esistere per
controllare la crescita e la differenziazione.
(5). Arthur O. Lovejoy, “The Great Chain of Being: A Study of the History of an
Idea”, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1936 [trad. it. “La grande
catena dell’essere”, Milano, Feltrinelli, 1966].
(6). J.-B. de Lamarck, “Philosophie zoologique”, Paris, 1809.
(7). J. von Neumann e O. Morgenstern, “Theory of Games and Economic
Behavior”, Princeton, Princeton University Press, 1944.