Algebra del sesso

Non esiste rapporto, comunicazione o interazione umana che non segua regole più o meno formalizzate dello scambio, dell’alternanza, della significatività di certi atteggiamenti della giusta distanza. Non esiste relazione che possa sottrarsi a un simile esercizio, automatico e tuttavia sottile, che in definitiva altro non è che una progressiva negoziazione, una trattativa sulla distribuzione del potere, in una coppia o in un gruppo. Fino a quando non è stato raggiunto un assestamento reciproco in cui si è stabilito un accordo sulle rispettive posizioni.

Nell’ambito di una conversazione per così dire corretta dal punto di vista dell’applicazione delle regole, le opinioni possono essere condivise ma anche contestate, le ipotesi discusse, le proposte accolte o respinte. Vi sono però circostanze in cui gli scambi, non solo verbali, sono opachi, ambigui, uno o alcuni dei partecipanti non rispettano le regole, usano strategie occulte per manipolare l’altro, che è preso in una rete che avverte ma non riesce a mettere a fuoco. Lo stile argomentativo è accattivante e capzioso, accomodante e allo stesso tempo inflessibile. Si inviano messaggi in cui si fa un uso massiccio di espressioni ambigue o allusive, sostenute da una trama di segnali non verbali, messaggi cosiddetti paralinguistici, come il tono e l’inflessione della voce, le interiezioni, la gestualità, la postura del corpo, la mimica del viso. L’atteggiamento manipolatorio produce quelli che Buber chiama i “dialoghi non-autentici”.

Tuttavia, è importante distinguere la manipolazione che vuole irretire l’altro e danneggiarlo, dai mille espedienti seduttivi che vengono utilizzati nelle interazioni con gli altri come componenti abituali dell’organizzazione del discorso. Fin dalla primissima infanzia i rapporti che i bambini tendono a instaurare con gli adulti sono intessuti di una intensa attività di manipolazione: il grido di dolore, al quale corre sollecito l’adulto, diventa per il bambino il modo più diretto per ottenere vantaggi immediati. Ma anche per chi, con la maturità e l’esperienza, ormai smaliziato, è arrivato a disprezzare queste tecniche manipolatorie, non è semplice mantenere rapporti paritari, guidati da un rispetto genuino e costante verso l’altro. Esiste sempre un certo grado di potere, magari condiviso, esercitato dall’uno sull’altro. Ad esempio le relazioni che vertono su dinamiche di tipo sadomasochistico, al di là di una apparente sperequazione del potere che vede una vittima e un persecutore, si basano in realtà su un accordo tacito e profondo in cui i ruoli sono tutt’altro che rigidi e il tornaconto è di entrambi i protagonisti. Il “sadico” mette in scena un copione scritto da entrambi, il suo è un esercizio visibile e in un certo senso spudorato del potere. Ma il partner masochista non è meno esigente. La ragion d’essere dell’uno richiede l’esistenza dell’altro. Il masochista chiede di godere proponendosi alla violenza dell’altro. Tanto che potrebbe avere un sottile fondo di verità la ben nota, folgorante storiella in cui un masochista implora un sadico “Picchiami!”, e il sadico risponde crudelmente “No!”.

In realtà le cose non sono mai così schematiche, quando c’è di mezzo il sesso. Se mi è consentita una digressione, una breve parentesi, vorrei ricordare che l’erotismo non è una scienza esatta; e se no, non solo il sadico dovrebbe picchiare o tormentare solo un altro sadico, per vederlo soffrire, ma anche gli incontri tra omosessuali sarebbero rari e difficili, visto che – tanto per fare una esempio – l’omosessuale di sesso (anagrafico) maschile amerebbe incontrare un “vero maschio”, ossia un ’macho’ che non ama concedersi agli omosessuali perché ne va della sua “masculinidad”. La verità è che non esiste un’algebra del sesso (il Kamasutra è tutt’al più una geometria), e può succedere – come di fatto succede – che certi incontri avvengano all’insegna dell’inganno: nei confronti dell’altro, e anche nei confronti dello stesso soggetto. Vedi il successo di transessuali, bisex e ’travestiti’. Spesso il partner è tale “per approssimazione”, in definitiva un surrogato, che – come succede nell’amore mercenario, si presta a interpretare un ruolo. Chiusa la parentesi, torniamo alla manipolazione nella coppia classica, quella benedetta dal Cielo e dall’anagrafe, insomma, dalla morale corrente.

Bene: in questo rapporto di coppia la manipolazione può anche svolgere la funzione (consapevole o meno) di rafforzare e confermare il ruolo sessuale tradizionale che il collettivo (la cultura dominante) attribuisce all’uomo o alla donna, di alimentare dunque la disparità tra uomo e donna col risultato di impedire una relazione fondata sulla conoscenza di sé, radicata nel desiderio e basata sull’incontro con l’altro. Manipolare significa alimentare la disparità e mantenerla, avere bisogno di confermare la propria identità collettiva (che si definisce in termini di potere) esercitando il possesso sull’altro e negandone l’autonomia. Ognuno fa da specchio all’altro, e nel rispecchiamento reciproco si garantisce la continuità del rapporto dominatore-dominato implicito nei ruoli sessuali attribuiti dalla collettività.

Cosa accade invece nell’ambito della relazione terapeutica? In questo caso lo psicologo occupa di fatto una posizione di forza nei confronti di chi si propone secondo l’antico modello del bambino bisognoso di aiuto: questi, proprio per la condizione di sofferenza in cui versa, tende ad attribuire alla persona che ha di fronte doti, qualità e sapere salvifici, proiezioni che in un primo momento del lavoro sono in effetti utili per consentire al paziente di affidarsi alla cura ed entrare nella nevrosi di transfert. Lo sappiamo bene: l’analisi è una dimensione relazionale sbilanciata, ove non esiste e non è nemmeno corretto presupporre un equilibrio di ruoli e funzioni. Non può esserci simmetria fra paziente e analista e qualora ciò accadesse andrebbe letto come la manifestazione di una dinamica “sfuggita al controllo dell’esperto”. La storia della psicoanalisi ci mostra esempi importanti di quanto abbiamo appena affermato, basti pensare a due coppie celebri, nelle quali un analista uomo e una paziente donna hanno permesso che la situazione sfuggisse loro di mano. Stiamo parlando di Breuer e Anna O., così come di Jung e Sabina Spielrein. Due casi analoghi seppure diversi, due esempi di quello a cui può condurre un cammino orientato verso la simmetria all’interno della coppia analitica.

“Analoghe” sono queste due vicende anche per l’elemento che, deus ex machina, apparirà per riportare luce e ordine: Freud. Prendendo sulle proprie spalle il peso della vicenda – nel caso Anna O. – e svolgendo il ruolo di giudice e confidente – nel caso Spielrein – Freud riuscirà in entrambe le circostanze ad attivare interessanti meccanismi di triangolazione che condurranno allo sblocco delle vicende là dove esse si erano arenate. Quello che però dovremmo ricordare, è che in entrambi i casi, i problemi avevano avuto origine da un livellamento della “asimmetria”.

In Diario di una segreta simmetria (1980) ho avuto modo di riflettere su questo argomento, basandomi, per l’appunto sulla vicenda Spielrein. In quel testo, come altrove, mi è stato possibile giungere alla conclusione che l’asimmetria è una condizione determinante per la riuscita, di un trattamento terapeutico. Questa asimmetria di potere è un dato di fatto, dal momento che c’è un terapeuta ’esperto’ da una parte e l’angoscia del paziente dall’altra. È un problema anche di natura etica, su cui non si può evitare di soffermarsi. Questa situazione di potere va controllata dall’analista, il quale se da un lato accetta l’investimento carismatico del paziente proprio perché funzionale a che riemerga il ’fantasma’, dall’altra vi si sottrae, accettando d’interpretare il ruolo che il paziente gli affida, ma senza ’interiorizzarlo’ (come avrebbe detto Stanislavskij), senza “viverlo” fino a credersi quel personaggio. Quanto più egli eviterà. d’identificarsi con la figura carismatica del salvatore di anime, quanto più cercherà di sottrarsi all’inflazionamento narcisistico sempre in agguato, tanto più il suo ’potere’ opererà come strumento terapeutico.

La manipolazione e il danno conseguente derivano dal fatto che si può – malgrado qualsiasi addestramento – essere guidati e vissuti dal proprio problema personale qualora questo venga fatto riemergere dall’impatto con problematiche affini presenti nel paziente. Nonostante, infatti, il lavoro analitico personale, esiste sempre la possibilità che un paziente attivi nel terapeuta costellazioni complessuali a lui sconosciute, o poco elaborate; entrare in contatto con un nucleo patogeno poco controllabile costituisce una grossa prova per l’analista, il quale, nel tentativo di arginarla, può mettere in atto meccanismi difensivi, un ’gettare acqua sul fuoco’ per contenere la minaccia di una destabilizzazione dell’equilibrio della coppia analitica. Destabilizzazione che, invece, può essere salutare, se ben utilizzata, al fine di penetrare il nucleo profondo da cui ha avuto origine la sofferenza del paziente.

Può dunque nascere una manipolazione tra analista e paziente quando nelle dinamiche transferali e controtransferali si attivano bisogni arcaici che, come è naturale, si accompagnano ad affetti ambivalenti. Quando le dinamiche inconsce del paziente vanno a colludere nel terapeuta con nuclei complessuali poco elaborati, zone vulnerabili del sé, questi non può che controllare ed elaborare le sue dinamiche controtransferali, tentando di far luce su ciò che gli accade, continuando quel lavoro di autoanalisi che già Freud raccomandava di non interrompere mai: lo psicoanalista è il medico-ferito, rappresentato nel mito del guaritore Chirone, portatore dello stesso morbo che tentava di curare nei suoi pazienti. Ogni terapeuta sa che il proprio ’tallone d’Achille’è anche il centro catalizzatore di quelle energie psichiche che si riversano nell’arte terapeutica, che la mantengono viva, che permettono al guaritore di entrare in risonanza con il paziente ferito, di comprendere la sua angoscia, la sua domanda d’amore, la sua aspirazione alla trasformazione psicologica. Chi ritenesse di aver pagato il suo debito nei confronti dell’inconscio, di essere guarito, dovrebbe cambiare mestiere.

Tuttavia non è facile confrontarsi con i propri demoni, mantenersi aperti alle sollecitazioni dell’inconscio e fedeli all’impegno dell’introspezione continua. Non lo è neppure quando a costringerci a questo confronto sono i nostri pazienti, le loro ferite, quelle che ci coinvolgono a livello più intimo perché ripropongono nuclei di sofferenza che ben conosciamo o zone d’ombra di cui preferiremmo rimanere inconsci. È una situazione nella quale ci si trova innumerevoli volte, e l’unico strumento che si possiede è rappresentato dalla coscienza personale, dalla volontà e dal coraggio di affrontare l’ostacolo. La manipolazione può avvenire nel senso di ammansire e addomesticare – dunque controllare e reprimere – gli stati emotivi del paziente per evitare la ’contaminazione’ con la sua sofferenza, e conosciamo bene la fatica e il timore di condividere e di tradurre in ’cibo buono’ le angosce profonde dei pazienti quando esse toccano punti nevralgici e zone d’ombra che ci appartengono. È allora che può innescarsi il meccanismo manipolatorio. Il terapeuta, in maniera inconscia, lascia cadere informazioni, richieste, sollecitazioni del paziente a far luce su determinati vissuti, e convoglia l’attenzione su altri aspetti complessuali di cui abbia maggior esperienza. Non sono manovre coscienti, ma aspetti controversi dell’agire analitico che si palesano solo in seconda istanza, ed è la sapienza della psiche a far sì che vengano alla luce tali tentativi di fuga. Un paziente può, per esempio, riproporre più volte lo stesso sogno nonostante le impeccabili interpretazioni suggerite dall’analista: in questo caso il sogno può comunicare proprio un fallimento dell’interpretazione, la necessità di recuperare un’occasione perduta, il rimprovero inconscio del paziente dinanzi al ’tradimento’ dell’analista. Occorre infatti essere ben consapevoli del fatto che i pazienti, seppure persone ferite e vulnerabili, non sono comunque degli sprovveduti: la maggior parte di loro possiede notevoli doti intuitive, capacità riflessive e, sia detto en passant, i pazienti di oggi vanno in analisi assai meno “impreparati” di quelli di una volta. Aggiungiamo che la stessa fiducia che essi pongono nell’analista, il desiderio di sentirsi aiutati e compresi nella loro sofferenza, li rendono sensibili e permeabili ai vissuti del partner analitico. Essi si mettono in gioco con tutti se stessi, e chiedono che anche il terapeuta faccia altrettanto. Esiste un legame inconscio che unisce i membri della coppia analitica, oltre che la cosciente alleanza terapeutica: questa ’coppia d’ombra’ può prendere il sopravvento per alcuni periodi di tempo, ma, a meno di non trovarsi di fronte a un fallimento analitico, dunque alla rottura del contratto, la sapienza segreta della psiche fa sì che il terapeuta possa nel corso del suo lavoro rendersi conto degli errori, delle manipolazioni inconsce nate per tutelare il proprio status quo, il proprio equilibrio di compromesso; in pratica per far orecchio da mercante alla sofferenza del paziente.

Un esempio fin troppo banale, ma non per questo poco frequente nei set analitici, è quello di fornire al paziente la dose giornaliera di gratificazione e di accudimento, senza rendersi conto che è manipolatorio proporsi solo e sempre come ’madri buone’. Si rischia infatti che il paziente resti schiacciato dal peso di una eccessiva gratitudine, che resti soffocato da un eccessivo nutrimento, che colluda con una richiesta dell’analista di sentirsi la madre onnipotente o il padre che ha sempre un buon consiglio da dare su tutto. Non solo: si impedisce al paziente di manifestare i vissuti ambivalenti, le ostilità inconsce, la rabbie e le invidie, vissute con profondo senso di colpa qualora l’analista venga percepito come quell’essere oblativo, onnicomprensivo, inattaccabile e inaccessibile quale egli si propone. Se le cose andassero in questo modo, le prospettive per il paziente non sarebbero rosee. Niente di più nocivo per il paziente che ritrovarsi solo con un pesante fardello di sentimenti negativi da gestire. Che cosa dovrebbe fare di quella rabbia inespressa, di quelle frustrazioni, di quel senso di impotenza, il nostro paziente sfortunato, se non ritorcerli contro se stesso? Si tratta di situazioni delicate, di estremo “rischio” per il paziente, che ha l’impressione di essere solo e disarmato dinanzi a un gigante, a un mostro pronto a divorarlo in qualsiasi momento. Il problema scaturisce non tanto dall’incapacità da parte del paziente di dar volto e voce ai fantasmi che già lo tormentavano e che lo hanno condotto alla sua richiesta di aiuto, quanto alla sua incapacità di esprimere il proprio vissuto nei confronti dell’analista. Se ciò è vero in tutte le situazioni che – come nell’analisi – “impongono” l’espressione del proprio vissuto, lo è ancor di più nel momento in cui tale vissuto sia connotato in modo negativo. La rabbia, l’ostilità, il rancore non possono essere cancellati per incanto.

L’analisi sembra essere il territorio privilegiato per l’emersione di contenuti sgradevoli, siano essi originati dall’inconscio del paziente o dal contesto terapeutico. Queste dinamiche – sia chiaro – non dovrebbero essere guardate con occhio critico, ma essere considerate come le normali implicazioni di un processo terapeutico. L’aspetto negativo di esse, tuttavia, può talvolta emergere, e quando ciò accade il rapporto rischia di trasformarsi in conflitto. Le emozioni di cui stiamo parlando diventano fagocitanti quando rimangono in un angolo del setting, isolate, fini a se stesse. Rinunciare a interpretarle e metabolizzarle significa condannare il paziente a sentirsi il bersaglio, l’incolpevole capro espiatorio di una realtà ostile, in cui persino chi “per contratto” sarebbe tenuto a farsi in quattro per capire e risolvere i suoi problemi – e ne ha il potere, agli occhi del paziente – sembra non accorgersi nemmeno della sua sofferenza.

L’uomo è capace di amare e odiare con la stessa violenza una medesima persona; se poi ha un conto aperto con gli altri e con se stesso, ed è per questo che è venuto in analisi, è possibile che tocchi all’analista questo drammatico “capovolgimento di fronte”. Ma se il set analitico finisse col trasformarsi in un ring o in un campo di battaglia, toccherebbe comunque al terapeuta condurre il gioco, per arduo e complesso che sia. Certo, l’analista è anche lui – comunque lo veda il paziente – un essere umano, col suo bravo inconscio e i suoi bravi ’talloni d’Achille’; ma guai a lui se dovesse scoprirsi incapace di “gestire le emozioni” e perciò portato a scansare quelle più temibili perché potrebbero riaprire una sua ferita. In tal caso la responsabilità del fallimento della terapia ricadrebbe tutta intera su di lui, che nell’illusione di “tenersi a riparo” avrebbe in realtà mancato proprio le occasioni più propizie sia per la ’crescita’ del paziente che per quella sua personale.

Io non credo che ci sia uno psicoanalista capace di sbagliare fino a questo punto. Se ci fosse, se c’è, vuol dire che ha sbagliato fin dal principio, perché ha “sbagliato mestiere”: ha scambiato per ’vocazione’ una scelta dettata da criteri futili o da entusiasmi indotti. Per esempio, si è immaginato in quel ruolo e si è piaciuto – come più di mezzo secolo fa ci si sognava chirurghi o aviatori.

Però di “sbagliare” può succedere a qualsiasi psicoanalista. Per quanto autentica sia la sua vocazione, scrupolosa la sua preparazione e vigile la sua attenzione, può sempre arrivare il momento in cui si delude il paziente, perché è impossibile sopperire a tutte le sue carenze e rispondere in maniera ’giusta’ a tutte le sue richieste. Sono momenti comunque preziosi, errori che possono essere utilizzati per una crescita della relazione analitica; e il modo in cui il paziente riuscirà a elaborare il confronto col limite e con la vulnerabilità del suo analista, dunque a fronteggiare la frustrazione della sua domanda d’amore, sarà di fondamentale importanza per la risoluzione del transfert. Anche in queste occasioni, però, possono insinuarsi atteggiamenti manipolatori che hanno lo scopo di ricostruire quell’immagine idealizzata dell’analista che qualcosa, agli occhi del paziente, ha incrinato. Se lo psicoanalista non è consapevole del suo bisogno narcisistico di sapersi non dico divinizzato ma almeno idealizzato dal paziente, se non è dunque ben analizzato, può tentare di difendersi dalla svalutazione e dalla conseguente collera del paziente, cercando di minimizzare l’errore, o di imputarlo a una eccessiva richiesta di gratificazioni del paziente stesso, senza riconoscere la propria cattiva gestione della frustrazione e la necessità di un confronto con le proprie dinamiche inconsce, con i propri fantasmi legati al sentimento di inadeguatezza e di fuga dal confronto con il ’vuoto’.

L’analista che s’identifica con l’immagine dell’uomo potente può cadere vittima dell’inflazione psichica e pensare di poter davvero determinare il destino altrui. È bene ricordare che il lavoro dello psicologo non è quello del consigliere, e del resto, si sa che il miglior consiglio consiste nel fornire un buon esempio. L’analista deve anzitutto uniformarsi alla classica, ferrea legge che vieta di ’colludere’ con il paziente. Stare al gioco del paziente, calarsi nel ruolo che lui vorrebbe attribuirci, vestire i panni che ci offre e, quindi, compiacerlo e assecondarlo, significa in realtà danneggiarlo, diventando il suo amico, confidente e confessore ma non il suo terapeuta. Questo non vuol dire che è bene “ignorare” i bisogni e i desideri del paziente, ma che se ne deve fare l’uso più giusto e opportuno.

Il desiderio di accudimento, per esempio, che spesso sorge nel paziente, il più delle volte si rivela come un bisogno compulsivo di ottenere risposte affettive dall’analista. È un desiderio arcaico, legittimo nel caso in cui il paziente non abbia ricevuto l’amore di cui ogni essere umano abbisogna per svilupparsi. Quando l’infanzia è stata segnata da una forma sottile di solitudine, di abbandono, un abbandono non materiale ma affettivo, una lunga privazione di intimità, di contatto, di autentica comprensione e rispetto per il proprio essere, è difficile credere che qualcun altro non ci abbandoni e voglia prendersi cura di noi. Il mondo della relazione con la figura materna costituirà sempre una dimensione inquietante, dalla quale occorrerà difendersi per non essere distrutti dal suo potere mortifero. Ma anche un’atmosfera avvolgente, quasi soffocante nel suo abbraccio di protezione – come abbiamo osservato a proposito del rapporto di Winnicott con la figura materna – può implicare conseguenze rilevanti per lo sviluppo psicologico dell’individuo e per le sue successive relazioni interpersonali. In tal senso, può rivelarsi utile uno sguardo su quella che è stata l’infanzia di Carl Rogers, sull’atmosfera e le emozioni che la contraddistinsero, nonché sulla sua giovinezza e sui primi passi da lui mossi in direzione della psicologia.

Carl Ransom Rogers nasce l’8 gennaio 1902, in un sobborgo di Chicago; si spegnerà a La Jolla nel 1987.

Quarto di sei figli – tra i quali una sola femmina – il piccolo Carl apparteneva a una famiglia piuttosto agiata, fondata su saldi principi religiosi e valori morali, una famiglia non ’rigida’ ma nemica dei compromessi, rispettosa dei valori tradizionali, come la virtù e il lavoro (Rogers 1961, 22). Si trattava di un nucleo familiare molto unito, dove il benessere e l’educazione dei figli occupavano un ruolo di prioritaria importanza, tanto che dei genitori lo stesso Carl conserverà un ottimo ricordo – condiviso anche con gli altri fratelli – fatto di gratitudine ma anche di malinconica nostalgia:

I miei genitori si preoccupavano moltissimo di noi e del nostro benessere. Controllavano anche, ma in modo molto delicato e affettuoso, il nostro comportamento. Era scontato per loro e accettato da me, che eravamo diversi dagli altri: non bevande alcoliche, né balli, né giochi a carte, né teatro, pochissima vita di società e molto lavoro. […] Ci divertivamo insieme alla nostra famiglia, ma non facevamo amicizie. Così sono stato un ragazzo piuttosto solitario, che leggeva continuamente e che, nel corso delle scuole superiori, si è incontrato solo due volte con una ragazza (Ibid., 22).

Se l’infanzia del nostro Rogers sembrerà scorrere nei solidi argini di un ambiente familiare premuroso e rassicurante, il rovescio della medaglia sarà rappresentato nel suo caso da un vago ma inestinguibile senso di solitudine che investirà non solo la sfera delle relazioni interpersonali ma, come vedremo, lo sviluppo del suo pensiero, della sua personalità e la costruzione della sua teoria.

A questo proposito – ma il discorso vale anche per altri autori anglosassoni che abbiamo già citato – è il caso di far notare come le biografie di questi studiosi smentiscano un pregiudizio piuttosto diffuso a vari livelli: che la famiglia come valore primario, santificato e divinizzato, caratterizzi più che altro le culture mediterranee o ’latine’. A conferma di questa “diagnosi” si cita di solito il fatto che nel mondo anglosassone i figli di chiunque se lo possa permettere vengono “espulsi dal nido” in assai tenera età (in Inghilterra intorno ai dodici anni) e spediti in un ’college’ o in un ’campus’, senza versamento di lacrime. Le problematiche che hanno segnato la giovinezza degli autori che stiamo passando in rassegna – nonché dei loro pazienti – dimostrano invece che siamo in presenza di meccanismi così radicati nella psiche umana che meridiani e paralleli culturali sono fuori causa.

Tornando al nostro Carl, c’è da aggiungere che la sua infanzia fu anche segnata da uno dei classici conflitti che si riscontrano all’interno delle famiglie cosiddette ’normali’: la rivalità e la gelosia nei confronti del fratello maggiore. Se per Adler – come vedremo – il ’rivale’ sarà l’intraprendente Sigmund, per Rogers la minaccia proverrà da Ross, più grande di lui di tre anni. Mentre i rapporti con il fratello maggiore Hester e con i più piccoli Walter e John procedevano secondo i canoni della consuetudine e della normalità, Carl soffrì per la convinzione di non ricevere dai genitori tanto amore quanto Ross, convinzione che lo condurrà addirittura all’idea di essere un ’figlio adottivo’.

Ma ciò che sembra aver contraddistinto l’infanzia e l’adolescenza di Carl fu senza dubbio una grave lacuna a livello delle relazioni interpersonali poiché, sebbene nelle figure genitoriali gli fu possibile riporre fiducia e da esse – comunque – ricevere amore, con queste amare parole commenterà gli anni dell’adolescenza:

Sapevo che i miei genitori mi amavano, ma non sarebbe mai accaduto che scambiassi con loro qualcuno dei miei sentimenti e pensieri personali o privati, poiché sapevo che questi sarebbero stati giudicati e trovati carenti. I miei pensieri, le mie fantasie e i pochi sentimenti di cui ero consapevole li tenni per me. Potrei riassumere questi anni di adolescenza dicendo che qualsiasi cosa oggi potessi considerare come una relazione interpersonale intima e comunicativa con un altro, fu completamente assente durante quel periodo. Il mio atteggiamento verso gli altri esterni alla mia famiglia fu contraddistinto dalla distanza e dalla separatezza che avevo assunto dai miei genitori. […] Così, durante gli importanti anni dell’adolescenza non ebbi alcun amico intimo, ma solo contatti personali superficiali (Rogers 1980, 30-31).

Nel 1914 il giovane Rogers e la sua famiglia – che aveva allora acquistato una fattoria nelle vicinanze di Chicago – si trasferiscono in campagna, ambiente che sarà per Carl molto stimolante e lo metterà in condizione di sviluppare alcuni particolari interessi. Tra questi lo studio delle “grandi falene notturne”, che farà di lui un’autentica “autorità in fatto di Luna, Polyphemus, di Cercopia, e lo spingerà ad allevare le falene in cattività; e poi, e poi i bachi, e poi i calabroni, dei quali conservava i bozzoli durante i mesi invernali” (Rogers 1961, 23). Questa precoce ma profonda passione per la natura, indurrà il giovane Rogers a orientare i propri interessi e le proprie ambizioni verso la scienza, anche se i primi testi “scientifici” saranno dei trattatati di agraria, scelta che gli consentì di compiacere il padre, il quale “era deciso a far funzionare la sua nuova fattoria su basi scientifiche” (ibidem).

Il contatto con gli animali e con le leggi della natura che Carl avrà modo di vivere nell’ambito della fattoria diverrà il germe da cui originerà il suo grande interesse per la scienza. Sarà anzitutto dagli scritti di Morison che Rogers apprenderà il senso, la metodica e lo spirito del cosiddetto esperimento scientifico: “Imparai come sia difficile provare un’ipotesi. Acquistai conoscenza e rispetto per i metodi scientifici nel campo dell’impegno pratico” (Ibid., 23-24).

Così il giovane Rogers deciderà di studiare agraria al College del Wisconsin, e dei tanti insegnamenti che quella esperienza gli regalò uno in particolare rimarrà impresso nella sua mente:

Una delle cose che ricordo meglio fu l’espressione rude e decisa di un professore di agronomia a proposito dell’apprendimento e dell’uso dei fatti. Egli insisteva sull’inutilità di una conoscenza enciclopedica fine a se stessa e terminava con l’ingiunzione: «Non siate un vagone di munizioni, siate un fucile» (Ibid., 24).

Man mano che procedeva lungo il proprio percorso evolutivo però, gli interessi di Rogers andavano modificandosi, e alla precoce passione per l’agraria si affiancò quella per le problematiche inerenti la storia e la religione. Ebbene, la conoscenza e l’approfondita comprensione di ’altre’ dottrine religiose si riveleranno l’elemento fondamentale che innescherà un’ulteriore metamorfosi, una nuova e proficua inversione di rotta:

Fui costretto ad allargare i miei orizzonti, ad accettare che la gente sincera ed onesta può credere in dottrine religiose molto diverse. Mi emancipai dalle credenze religiose dei miei genitori accorgendomi che con esse non potevo andare lontano. Quel passo mi costò molto […] ma riconsiderandolo, penso che quello sia stato più di ogni altro, un momento decisivo verso l’autonomia (Ibid., 24).

L’ampliamento degli orizzonti culturali di Rogers divenne ancor più intenso in seguito a un viaggio in Oriente che non solo gli diede la possibilità di innamorarsi – in Cina – di una fanciulla che conosceva da tempo e che sarebbe in seguito diventata sua moglie ma, anche o soprattutto, di raggiungere una autentica emancipazione psicologica.

Così, man mano che il tempo trascorreva e che si compiva la sua evoluzione spirituale, Rogers andava avvicinandosi sempre più alla Psicologia, meta alla quale approdò nel 1925. A quell’epoca il ventitreenne Rogers studiava psicologia presso la Columbia University. L’interesse per questa disciplina era nato in lui come risposta all’esigenza di trovare “un campo in cui avere la certezza che la (sua) libertà di pensiero non sarebbe stata limitata” (Ibid., 26). Fra i personaggi che a detta dello stesso Rogers contribuirono al crescere del suo interesse verso la Psicologia, ricorderemo Goodwin Watson, Harrison Elliott, Marian Kenworthy.

Lavorerà nel campo dell’educazione con William H. Kilpatrick, mentre nel lavoro clinico sarà al fianco e sotto l’ala protettrice di Leta Hollingworth. Fu allora che Rogers cominciò a considerare se stesso secondo una diversa impostazione, vedendo nelle proprie attitudini, nelle proprie passioni e nel proprio operato anzitutto l’impegno di uno “psicologo clinico”. Il suo lavoro sarà rivolto al mondo dell’infanzia, e di quel periodo Rogers conserverà un buon ricordo, sottolineando soprattutto il ruolo “formativo e trasformativo” di quell’esperienza:

Fu un passo che affrontai senza drammi, forse non del tutto cosciente del taglio netto che rappresentava per la mia vita seguendo soprattutto le attività che mi interessavano (Ibid., 26).

Dopo essere rimasto per un anno all’Institute for Child Guidance in qualità di allievo interno e aver conseguito la laurea in Psicologia, Rogers sarà assunto come psicologo presso il Child Study Department di Rochester, New York. Di quest’occasione lavorativa fu soddisfatto perché – nonostante certi aspetti ’negativi’ – lo metteva in condizione di svolgere un lavoro che amava, fattore per Rogers determinante:

Il fatto che dal punto di vista professionale fosse una strada morta, che sarei stato isolato dai contatti professionali, che lo stipendio non fosse buono, […] non mi era assolutamente venuto in mente […]. Credo di avere sempre avuto la sensazione che, se mi fosse stata data l’opportunità di fare ciò che mi interessava, ogni altra cosa si sarebbe in qualche modo aggiustata da sola (Ibid., 27).

Così Rogers rimarrà presso il Child Study Department per circa dodici anni, dedicando il suo impegno e il suo lavoro a un “servizio psicologico” per ragazzi delinquenti e ritardati; sarà quindi professore di Psicologia presso le Università di Chicago, Wisconsin, Stanford e – nel 1940 – Ohio.

L’esperienza clinica presso il Child Study però gli imporrà di confrontarsi con alcuni aspetti fondamentali della sofferenza umana e, soprattutto, con l’eventualità di rivedere e mettere in discussione presupposti teorici nei quali aveva sempre creduto, come ad esempio gli assunti appresi dagli scritti del dottor William Healey. Toccare con mano la possibilità che nulla possa o debba essere considerato ’definitivo’, si rivelerà per Rogers un’esperienza utilissima che, pian piano, gli conferirà la forza di sviluppare un suo originale pensiero.

Vorrei ribadire che questo nostro soffermarci su certi “passaggi” della biografia di Carl Rogers è motivato dalla convinzione che le esperienze affettive dell’epoca dell’infanzia sono determinanti non solo per lo sviluppo psicologico dell’individuo ma anche per la formazione delle sue idee. Se ciò è riscontrabile in molti contesti del quotidiano, lo è ancor di più nel contesto analitico, ove bisogni come quello dell’accudimento possono riproporsi in maniera coatta. È importante tener presente queste realtà per poter riconoscere che, accanto alle dinamiche idealizzanti, il paziente può essere portatore anche di una profonda sfiducia che, all’occasione, potrebbe trasformare l’analista adorato in uno spregevole traditore. Occorre allora che l’analista riesca da un lato a interpretare il ruolo in cui i fantasmi del paziente lo costringono – in modo da rendere presente ed evidente al paziente stesso il desiderio nevrotico che egli ripropone in analisi – e dall’altro non vi aderisca del tutto, restando al di qua del desiderio dell’altro. Un dosaggio difficile, che presuppone una costante vigilanza e una notevole dose di coraggio. Colui che accoglie le proiezioni può indulgere nel fantasma dell’altro senza rendersene conto, oppure può riproporsi come, venti anni prima, si sono proposti i genitori del paziente.

Entriamo così nell’area dell’identificazione proiettiva, una delle più inquietanti fra quelle esplorate negli ultimi decenni di pratica analitica. L’opera e il pensiero di Melanie Klein sono a questo proposito illuminanti. Il concetto di identificazione proiettiva infatti viene introdotto proprio dalla Klein e nonostante le numerose e successive rivisitazioni, sul nascere esso era finalizzato a proporre l’idea che il bambino “immetta” in maniera fantasmatica nel corpo della madre parti di sé. A monte di questo singolare meccanismo, ne opererebbe uno ancora più arcaico ed efficace, messo in atto dall’Io per far fronte all’angoscia: la scissione.

Il punto di vista kleiniano in merito alla funzione dell’identificazione proiettiva, appare in uno scritto risalente al 1946: “Note su alcuni meccanismi schizoidi”, ove la “psicoanalista dei bambini” afferma:

A questo punto gran parte dell’odio nei confronti di parti del Sé si indirizza alla madre. Ciò determina una forma particolare di identificazione che costituisce il prototipo delle relazioni oggettuali aggressive. Proporrei di denominare questa forma di processo di identificazione “identificazione proiettiva”. Quando la proiezione deriva principalmente dall’impulso a nuocere alla madre o a controllarla, il lattante avverte la madre come un persecutore. […] L’identificazione basata su questo tipo di proiezione influenza anch’essa, e sostanzialmente, le relazioni oggettuali (Klein 1946, 417).

Ciò significa che se le proiezioni messe in atto dal bambino – o meglio dal lattante – nei confronti della madre saranno caratterizzate da sentimenti positivi e “veicoleranno” solo parti del Sé buone, le future relazioni oggettuali ne beneficeranno; il contrario dicasi qualora vengano proiettate dentro la madre parti del Sé cattive. La Klein affronta con precisione questi aspetti, osservando altresì come la scissione, intesa appunto come uno dei più efficaci meccanismi di difesa dell’Io dall’angoscia, goda anche di sorprendenti connessioni con la proiezione e l’introiezione (ibid., 415):

Finora ho trattato in particolare del meccanismo della scissione, che è solo uno dei primissimi meccanismi di difesa dell’Io contro l’angoscia. Anche l’introiezione e la proiezione sono posti a servizio di questo fine primario dell’Io fin dall’inizio della vita. La proiezione, come ha chiarito Freud, nasce dalla deviazione della pulsione di morte all’esterno, e secondo me aiuta l’Io a superare l’angoscia liberandolo da ciò che è pericoloso e malvagio. Per difendersi dall’angoscia l’Io si avvale inoltre dell’introiezione dell’oggetto buono” (Ibidem).

Le tematiche così introdotte dalla Klein circa le implicazioni dell’identificazione proiettiva sono tentacolari. Tanto è vero che da allora la psicoanalisi non cessa di interrogarsi a riguardo. In particolare, ciò che di questo meccanismo sembra catturare l’attenzione della psicoanalisi sono le conseguenze. Vale la pena di approfondire queste concezioni: quando l’identificazione proiettiva è al lavoro, parti di noi vengono “immesse” dentro qualcun altro e da ciò ricaviamo la sensazione di essere amati, oppure odiati o anche di essere “amabili” o “detestabili”. In realtà l’Altro – ossia colui che ha ricevuto le nostre proiezioni – si è gioco-forza impossessato di qualcosa di “nostro”, di qualcosa che ci appartiene, un tassello di quell’enorme puzzle che rappresenta la nostra personalità. La domanda che dovremmo a questo punto porci è la seguente: come viviamo la separazione da queste parti di noi? Molto male, nel senso che in fondo non la accettiamo mai del tutto, non superiamo con serenità questa sorta di “mutilazione psichica”. Da ciò scaturiscono spesso ricerche disperate e interminabili, ricerche di quelle parti di noi che sono state buttate fuori ma che, in fondo, sentiamo sempre “nostre”. Le conseguenze di questo gioco di proiezioni possono essere molto sgradevoli, soprattutto là dove entri in gioco la sfera dei sentimenti. Che dire infatti di quei casi – peraltro niente affatto rari – in cui la persona proietta le parti peggiori di sé sul suo partner?

Interrogativo inquietante soprattutto se pensiamo che l’Altro, colui che “riceve” il materiale proiettato, si trova a essere investito da sentimenti che fino ad allora non si erano mai manifestati. Sono questi i momenti in cui si pronunciano frasi del tipo: “Perché ti comporti così? Non ti riconosco più!”, oppure: “Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”.

Il problema dunque risiede nel fatto che l’identificazione proiettiva implica sempre l’esistenza di un feticcio, di un detestabile surrogato del proprio Sé sul quale riversare eventuali sentimenti negativi, come il disprezzo, la rabbia, le frustrazioni. Ma ciò che è più drammatico è il fatto che entrambi i soggetti sono vittime, entrambi soffrono: l’uno perché si ritrova a essere “la causa dei mali del mondo”, l’altro – colui che proietta – perché è comunque prigioniero delle sue stesse proiezioni, schiavo della loro negatività.

testo tratto da “Breve storia della psicoanalisi” di Aldo Carotenuto

“Convinto che la teoria psicoanalitica non sia tanto un “lungo ragionamento” quanto un acceso diverbio, un dibattito in cui ognuno è libero di esprimersi come preferisce, senza sentirsi giudicato o limitato dalla presenza di un moderatore, Carotenuto mostra al lettore il volto più autentico della psicoanalisi, riuscendo al contempo a offrirne un’illuminante definizione.

La dimensione psicoanalitica è stata sempre fumosa, aggrovigliata, contraddittoria, decisamente antipatica, ma grazie alle considerazioni di Carotenuto, sarà possibile accostarsi a essa senza il timore reverenziale che di solito accompagna (e guasta) l’approccio a tale disciplina.”

ALDO CAROTENUTO è tra le figure più significative dello junghismo internazionale. È membro dell’American Psychological Association e presidente del Centro Studi Psicologia e Letteratura. Professore di Psicologia della personalità all’Università di Roma, ha scritto oltre quaranta libri, alcuni dei quali tradotti nelle maggiori lingue europee e in giapponese. Fra le sue ultime opere segnaliamo: Il gioco delle passioni, L’anima delle donne, Vivere la distanza, La colomba di Kant, L’eclissi dello sguardo, Eros e Pathos, Il fondamento della personalità, Integrazione della personalità, Nostalgia della memoria, La strategia di Peter Pan, Trilogia delle passioni, Freud il perturbante, Il tempo delle emozioni.