Biancaneve e Rosarossa (prima parte)

CAPITOLO 5

Biancaneve e Rosarossa (prima parte)

Esamineremo ora una fiaba dei Grimm nella quale la situazione è inversa da quella del capitolo precedente, perché parte da un complesso materno positivo. Ecco la fiaba (Grimm, N. 161):

Biancaneve e Rosarossa

C’era una volta una povera vedova, che viveva sola nella sua capannuccia, e davanti alla capanna c’era un giardino con due piccoli rosai; l’uno portava rose bianche, l’altro rose rosse. E la donna aveva due bambine, che somigliavano ai due rosai: l’una si chiamava Biancaneve, l’altra Rosarossa. Erano così buone e pie, diligenti e laboriose, come al mondo non se n’è mai viste; soltanto, Biancaneve era più silenziosa e più dolce di Rosarossa. Rosarossa preferiva correre per campi e prati, coglier fiori e prendere farfalle; ma Biancaneve se ne stava a casa con la mamma, l’aiutava nelle faccende domestiche, o, se non c’era niente da fare, le leggeva qualcosa ad alta voce. Le due bambine si amavano tanto, che si prendevano per mano tutte le volte che uscivano insieme; e se Biancaneve diceva: —Non ci separeremo mai! — rispondeva Rosarossa: — No, mai, per tutta la vita! — e la madre soggiungeva: — Quel che è dell’una, dev’essere dell’altra. — Spesso le due bambine andavan sole per il bosco a raccoglier bacche rosse; gli animali non facevano loro alcun male, ma si avvicinavano fiduciosi: il leprotto mangiava una foglia di cavolo dalle loro mani, il capriolo pascolava al loro fianco, il cervo saltava allegramente lì vicino, e gli uccelli restavano sui rami e cantavano tutte le loro canzoni. Alle due sorelle non capitava nulla di male: quando si erano attardate nel bosco, e le sorprendeva la notte, si coricavano sul muschio, l’una accanto all’altra, e dormivano fino alla mattina; la mamma lo sapeva e non stava mai in pensiero. Una volta, che avevano pernottato nel bosco, quando l’aurora le svegliò, videro un bel bambino seduto accanto a loro, con un bianco vestito scintillante. Il bimbo si alzò e le guardò amorevolmente, ma non disse nulla e s’addentrò nel bosco. E quando si guardarono intorno, s’accorsero di aver dormito sull’orlo di un abisso, dove sarebbero certo cadute se avessero fatto altri due passi al buio. Ma la mamma disse che certo quello era l’angelo che veglia sui bambini buoni.

Biancaneve e Rosarossa tenevan così pulita la capannuccia della madre, che era una gioia vederla. D’estate Rosarossa sbrigava le faccende di casa e ogni mattina, prima che la mamma si svegliasse, le metteva vicino al letto un mazzo di fiori, con due rose dei due alberelli. D’inverno Biancaneve accendeva il fuoco e appendeva il paiolo; il paiolo era d’ottone, ma brillava come oro, tant’era lustro. La sera, quando nevicava, la mamma diceva: — Va’, Biancaneve, metti il catenaccio. — Poi sedevano accanto al focolare, la mamma prendeva gli occhiali e leggeva ad alta voce un librone; e le due fanciulle stavano a sentire, filando; per terra, accanto a loro, era sdraiato un agnellino, e dietro, su un bastone, c’era un piccioncino bianco con la testa nascosta sotto l’ala.

Una sera, mentre se ne stavano tutt’e tre insieme, qualcuno bussò alla porta, come se volesse entrare. La madre disse: — Svelta Rosarossa, apri: sarà un viandante che cerca ricovero. — Rosarossa andò a levare il catenaccio e pensava che fosse un povero; ma invece era un orso, che sporse dall’uscio la sua grossa testa nera. Rosarossa strillò e fece un salto indietro, l’agnellino belò, il piccioncino svolazzò, e Biancaneve si nascose dietro il letto della mamma. Ma l’orso si mise a parlare e disse: — Non abbiate paura, non vi farò niente di male; sono mezzo gelato e voglio soltanto scaldarmi un po’ con voi. — Povero orso, — disse la madre, — mettiti vicino al fuoco e bada soltanto di non bruciarti il pelo. — Poi gridò: — Biancaneve, Rosarossa, venite fuori! L’orso non vi farà niente, non ha cattive intenzioni. — Allora s’avvicinarono entrambe; e a poco a poco si accostarono anche l’agnellino e il piccioncino, e non ne avevano più paura. L’orso disse: — Bambine, scuotetemi un po’ di neve dalla pelliccia! — ed esse andarono a prender la scopa e gli spazzarono il pelo; e l’orso si sdraiò accanto al fuoco, e mugolava, contento e soddisfatto. Non andò molto che fecero amicizia, e le bimbe si misero a fare il chiasso con l’ospite maldestro. Gli tiravano il pelo con le mani, gli mettevano i piedini sulla schiena e lo spingevano di qua e di là; o prendevano una verga di nocciolo e lo picchiavano, e quando mugolava ridevano. L’orso s’adattava a tutto; soltanto, quando passavano il segno, gridava: — O Biancaneve, e tu, Rosarossa, al pretendente scavi la fossa. Quando fu tempo di dormire e le bimbe andarono a letto, la madre disse all’orso: — Resta qui, accanto al fuoco, in santa pace: così sei protetto dal freddo e dal brutto tempo. — Appena albeggiò, le due bambine lo fecero uscire ed egl entrò nel bosco, trottando sulla neve. E poi, tornò ogni sera, alla stessa ora: si sdraiava accanto al focolare e permetteva alle bambine di prendersi spasso di lui fin che volevano; ed esse ci si erano così abituate, che non mettevano il catenaccio prima che fosse arrivato il loro nero amico.

Quando giunse la primavera e fuori era tutto verde, una mattina l’orso disse a Biancaneve: — Adesso devo andar via, e per tutta l’estate non posso più tornare. — Dove vai dunque, caro orso? — domandò Biancaneve. — Devo andare nel bosco a difendere i miei tesori dai cattivi nani: d’inverno, quando la terra è gelata, devono starsene sotto e non possono farsi strada, ma adesso che il sole ha sgelato e riscaldato la terra, l’aprono a forza, risalgono, frugano e rubano. Quel che finisce nelle loro mani, nascosto nelle loro caverne, non torna tanto facilmente alla luce. — Biancaneve era tutta triste per quell’addio; e quando gli aprì la porta, l’orso, passando in fretta, restò attaccato all’arpione e gli si lacerò un pezzo di pelle; e a Biancaneve parve che ne trasparisse dell’oro, ma non ne fu ben sicura. L’orso corse via in fretta e ben presto sparì dietro gli alberi. Dopo qualche tempo, la madre mandò le bambine nel bosco a raccoglier la stipa. Fuori videro, disteso al suolo, un grande albero, che era stato abbattuto, e presso il tronco, nell’erba, qualcosa saltava su e giù, ma non potevano distinguere cosa fosse. Avvicinandosi, videro un nano con una vecchia faccia grinzosa e una candida barba lunga un braccio. La punta della barba era incastrata in una fessura dell’albero e il nano saltava di qua e di là, come un cagnolino al guinzaglio, e non sapeva come cavarsela. Egli fissò le fanciulle, sbarrando i suoi rossi occhi di fuoco, e strillò: — Cosa state a fare! non potete avvicinarvi e darmi una mano? — Cos’hai fatto, omino? — domandò Rosarossa. — Stupida curiosaccia, — rispose il nano, — volevo spaccar l’albero, per avere legna minuta in cucina; coi ceppi grossi quei due bocconcini che occorrono a noialtri bruciano subito; noi non buttiamo mica giù tanta roba come voi, ingordi zoticoni! Ero già riuscito a ficcarci il cuneo, e tutto mi sarebbe andato benone; ma quel maledetto pezzo di legno era troppo liscio e saltò fuori  all’improvviso, e l’albero si richiuse così in fretta, che non ho più potuto tirar fuori la mia bella barba bianca: adesso è qui dentro, e io non posso andarmene. Guarda come ridono quelle due poppanti! stupide facce pelate! Puh, come siete brutte! — Le bambine ci si misero d’impegno, ma non riuscirono a tirar fuori la barba: era troppo ben incastrata. — Correrò a chiamar gente! — disse Rosarossa.

— Stupide pazze, — squittì il nano, — non ci mancherebbe altro! Siete già troppe in due: non avete niente di meglio da inventare? — Non essere impaziente! — disse Biancaneve; — ci penserò io. — Trasse di tasca le sue forbicine e gli tagliò la punta della barba. Appena il nano si sentì libero, afferrò un sacco pieno d’oro, che era nascosto fra le radici dell’albero, lo tirò fuori, borbottando: — Che villanzone, tagliarmi un pezzo della mia magnifica barba! Il diavolo vi porti! — Si gettò il sacco sulle spalle e se ne andò, senza neanche voltarsi a guardarle.

Dopo qualche tempo, Biancaneve e Rosarossa pensarono di andarsi a pescare con la lenza un bel piatto di pesce. Quando furono vicino al ruscello videro qualcosa che somigliava a una grossa cavalletta saltellar verso l’acqua, come se volesse buttarcisi. Accorsero e riconobbero il nano.

— Dove vuoi andare? — disse Rosarossa: — non vuoi mica gettarti in acqua? — Non sono così pazzo! — strillò il nano. — Non vedete? quel maledetto pesce vuol tirarmi dentro! — L’omino si era seduto a pescare, e disgraziatamente, per il vento, la barba gli si era intricata con la lenza; subito dopo abboccò un grosso pesce e la debole creatura non riuscì a sollevarlo. Il pesce aveva il sopravvento e trascinava giù il nano. Certo, egli si teneva a tutti gli steli e ai giunchi, ma serviva a ben poco: doveva seguire i movimenti del pesce e rischiava continuamente d’esser tirato in acqua. Le fanciulle arrivarono in tempo, lo tennero fermo e cercarono di districar la barba dalla lenza, ma invano: barba e lenza erano strettamente aggrovigliate. Non restò che tirar fuori le forbicine e tagliar la barba, sacrificandone un pezzettino. A quella vista, il nano si mise a strillare: — È questa, brutti rospi, la maniera di sconciar la faccia a un individuo? Non bastava avermi spuntato la barba, adesso me ne tagliate via la parte più bella! Non posso più farmi veder dai miei! Possa vedervi correre, senza più suole ai piedi! — Poi andò a prendere un sacco di perle, nel canneto, e, senza più dir parola, se lo trascinò via e scomparve dietro una pietra.

Or avvenne che, poco tempo dopo, la madre mandò le due bambine in città a comprar filo, aghi, stringhe e fettuccia. La strada le condusse attraverso una piana, sparsa di grossi macigni. E là videro un grande uccello librarsi nell’aria, roteare lentamente sulle loro teste, poi calar sempre più basso, finché atterrò poco lontano, presso una rupe. Subito dopo udirono uno strillo acuto e doloroso. Accorsero, e videro con terrore che l’aquila aveva ghermito il loro vecchio conoscente, il nano, e stava per portarlo via. Le bimbe pietose tennero stretto l’omino; e tira di qua, tira di là, alla fine l’aquila dovette abbandonar la sua preda. Quando il nano si fu riavuto dal primo spavento, gridò con la sua voce stridula: — Non potevate trattarmi con più riguardo? Avete tirato tanto il mio giubbetto sottile, che adesso è tutto lacero e bucato, sciattone e balorde che siete! — Poi prese un sacco di pietre preziose e si cacciò di nuovo nella sua tana, sotto le rupi. Le fanciulle erano già avvezze alla sua ingratitudine, proseguirono il cammino e sbrigarono le loro faccende in città. Al ritorno, ripassando per la piana, sorpresero il nano, che aveva rovesciato il suo sacco di pietre preziose in un bel posticino pulito, senza pensare che a ora così tarda potesse ancora venir qualcuno. Il sole al tramonto batteva sulle splendide gemme, che scintillavano e sfolgoravano in mille colori, così meravigliosamente, che le bambine si fermarono a guardarle. — Cosa fate lì, a bocca aperta! — strillò il nano, e la sua faccia color della cenere diventò paonazza dalla collera. Stava per lanciare altre ingiurie, quando si udì un cupo brontolio, e un orso nero uscì trottando dal bosco. Il nano balzò in piedi, atterrito, ma non poté più raggiungere il suo nascondiglio: l’orso era già lì. Allora gridò affannosamente: — Caro signor orso, risparmiatemi! Vi darò tutti i miei tesori! guardate, che belle pietre preziose! Fatemi grazia, che v’importa di un piccolo striminzito come me? Non mi sentite neanche sotto i denti. Prendete piuttosto quelle due malnate ragazze, per voi son bocconi prelibati, grasse come giovani quaglie! mangiate quelle, in nome di Dio! — L’orso non badò alle sue parole, non gli dette che una zampata, e quel malvagio non si mosse più.

Le fanciulle eran scappate via, ma l’orso le chiamò, gridando: — Biancaneve, Rosarossa, non abbiate paura! aspettate, vengo con voi. — Allora esse riconobbero la sua voce e si fermarono; e quando la bestia le raggiunse, la pelle d’orso cadde all’improvviso, ed ecco, egli era un bel giovane tutto vestito d’oro. — Sono il figlio di un re, — disse, — e il perfido nano, che aveva rubato i miei tesori, mi aveva stregato; e dovevo correr per il bosco sotto forma d’orso selvaggio, finché la sua morte non mi liberasse. E così egli ebbe il meritato castigo. Biancaneve sposò il principe, e Rosarossa suo fratello, e si spartirono quei gran tesori che il nano aveva ammassato nella sua caverna. La vecchia madre visse ancora molti anni presso le figlie, tranquilla e felice. Ma portò con sé i due rosai, che davanti alla sua finestra davano ogni anno le più belle rose, bianche e rosse.

L’inizio della storia descrive una specie di paradiso innocente dell’infanzia. Tutto appare armonioso, anzi un po’ troppo bello. D’altra parte i personaggi sono solo tre; nella maggior parte dei casi il numero abituale con cui si configura la totalità è il quattro. Manca infatti l’elemento maschile; non c’è il padre perché è morto. Quest’atmosfera puramente femminile è descritta come ideale e finché le bambine sono piccole ciò non è molto grave. Ma ormai le ragazzine non sono più bambine e conducono una vita molto isolata, senza vedere mai uomini; vivono cioè ai margini della vita. Con l’orso appare il quarto elemento, quello maschile.

Se si estende questo tema alla situazione storica delle nostre società, si può dire che il mondo maschile e quello femminile non intrattengono tra loro una giusta relazione, tanto umana quanto spirituale. Uno dei modi in cui il mondo femminile cerca di difendersi e d’instaurare il proprio diritto consiste nel crearsi paradisi femminili. Ciò si può notare in alcune associazioni nelle quali le donne si riuniscono per parlare dei loro interessi e delle loro preoccupazioni, ignorando o escludendo il mondo maschile, o in alcune famiglie nelle quali madre e figlia fanno causa comune e vivono il loro gioco tra loro, prestando poca attenzione al padre o ai fratelli; dichiarano che gli uomini non hanno il loro posto in cucina e li trattano come bambinoni o sciocchi. Come gli uomini hanno, da parte loro, circoli destinati a rafforzare il loro amor proprio e la loro posizione nella collettività, così le donne hanno bisogno di disporre di qualcosa di analogo — non c’è alcun motivo perché non sia così — che permetta loro di affermare la propria femminilità dinanzi a sé stesse, e che fornisca una cornice per prendere coscienza di ciò che le differenzia dagli uomini e soddisfare i loro bisogni particolari.

In molte tribù primitive i giovani sono iniziati alle società segrete di uomini e le ragazze alle società segrete di donne. I giovani sono istruiti in arti tradizionalmente maschili, come quella di parlare in assemblea, usare le armi, andare a caccia ecc., mentre le ragazze imparano la tessitura e le arti femminili, e apprendono le norme di comportamento della donna adulta e gli incantesimi d’amore.

Per quanto riguarda l’orso, la mitologia greca lo considerava un animale della dea-madre e gli autori medievali l’associavano alla Vergine Maria. La costellazione dell’Orsa Maggiore presenta l’articolo femminile. In Grecia vigeva il culto della dea Artemide Brauronia venerata in forma d’orso. Fanciulle di buona famiglia erano consacrate, tra i dodici e sedici anni, al suo servizio. Le si affidava alla dea nell’età in cui è difficile tenere a casa le ragazze e i ragazzi. Durante questo periodo, esse si comportavano come ragazzi mancati, non si lavavano, non prendevano alcuna cura della propria persona e si esprimevano in modo volgare, tanto che si dava loro il nome di orsacchiotte. Queste società avevano il compito di rafforzare la loro personalità proteggendone la formazione. Facendole entrare più tardi nella vita già provviste di una certa maturità ottenuta sotto la protezione della brutta pelle d’orso, si permetteva alla loro personalità di affermarsi e di svilupparsi senza scontrarsi anzitempo col problema della sessualità. Altrimenti si sarebbero ritrovate vecchie e consumate prima dell’età, con lo sviluppo mentale arrestato perché la sostanza vitale è appassita.

Soprattutto ragazze di natura delicata hanno la tendenza a nascondersi in tal modo sotto la pelle d’orso. Ho insegnato per molto tempo a ragazzi e ragazze di quest’età e ho notato che le ragazze camuffate con la pelle d’orso erano più vive e interessate agli studi; ma il loro successo diminuiva appena iniziavano a dare appuntamenti ai ragazzi, più interessate ormai a questi aspetti della vita. Più tardavano a far ciò, migliore era la loro possibilità di sviluppare la personalità.

Che donne o adolescenti si uniscano e facciano barriera contro il principio maschile non è dunque di per sé negativo, fintanto che ottengono il consolidamento della loro femminilità e preparano l’incontro con l’altro sesso a un livello più elevato. Non va dimenticato che tra i sessi non esiste soltanto un’attrazione istintiva, ma anche un’opposizione autentica, e che essi non hanno mai smesso di minacciarsi l’un l’altro, le donne cercando di attirare gli uomini con i loro modi femminili, e viceversa. È la trama d’una tensione necessaria e normale, essendo l’alterità la causa stessa dell’attrazione reciproca.

Nella nostra società è possibile osservare che le donne sono generalmente interessate più degli uomini ai vicini, agli avvenimenti familiari come matrimoni, nascite e decessi,  alle relazioni d’ordine personale; esse tendono a creare legami con le persone del loro ambiente, mentre gli uomini sono più portati a interessarsi agli eventi esterni e si preparano ad affrontarli. Ciò è quanto esprime anche l’antica filosofia cinese; si legge nel ventesimo esagramma dell’I Ching: “Contemplazione attraverso lo spiraglio della porta. Propizia è la perseveranza d’una donna”, mentre “per un uomo… un tale modo di comprendere limitato ed egoistico è naturalmente male”. In altre parole, il fatto di guardare le cose da vicino, in modo intimo, è lodevole per una donna, poiché è quello il suo modo naturale di percepire. L’uomo, al contrario, deve nutrire interessi più oggettivi e guardare alle cose da un’angolatura più ampia. La Cina conosce la stessa ripartizione delle aree d’interesse tra i sessi della nostra civiltà.

Tale è dunque la disposizione che sembra naturale e che la nostra tradizione ha incoraggiato, almeno fino alla nostra epoca. Ma il principio maschile e il principio femminile sono destinati a completarsi e a fecondarsi reciprocamente. Un mondo puramente femminile come quello descritto all’inizio della nostra fiaba, senza il contatto con il principio maschile, avrebbe un orizzonte troppo ristretto e personale. La fiaba descrive perciò una situazione femminile — innocente e affascinante a suo modo — nella quale manca tuttavia l’altro lato.

La donna che ha un complesso materno positivo tende ad avere confidenza in sé, e ciò è un bene, ma anche a identificarsi con gli interessi che aveva la madre. È evidente che una simile situazione presenta pericoli e inconvenienti, così il racconto ci mostra il modo in cui le cose possono evolversi: un giorno d’inverno compare l’orso, il quarto elemento, e con lui inizia uno sviluppo normale. Esaminiamo ora più da vicino il simbolismo dell’orso. In passato non era raro poter vedere una carcassa d’orso sospesa al banco del macellaio. Questa spoglia presenta l’aspetto grossolano di una figura umana, e ciò, se s’aggiunge il fatto che l’orso si drizza e cammina volentieri sulle zampe posteriori, è stato sufficiente a suscitare la proiezione, molto diffusa, secondo la quale gli orsi sono esseri umani. In tutte le tradizioni popolari quest’animale  è considerato un principe stregato o un uomo maledetto, condannato a errare attraverso il mondo nella pelle della bestia.

Si sa che tra gli adepti di Wotan esistevano i Berserk (Ber = Bär = orso; Serk = pelle). Diventare Berserk era considerato come un dono ereditario. Si raccontava, ad esempio, che durante una battaglia il signore, seduto nel suo castello, all’imprvviso sbadigliava paurosamente e cadeva in un sonno profondo come la morte, proprio nel momento in cui sul campo di battaglia appariva un orso che massacrava tutti i nemici. Appena l’orso era scomparso, il signore si svegliava estenuato perché, diventato Berserk, la sua anima, incarnata nell’orso, aveva impegnato una dura lotta. Si attribuivano a questi orsi-fantasmi grandi imprese guerriere, e la prova che si trattava del signore era data dal fatto che se l’animale era stato ferito alla zampa destra durante il combattimento l’uomo, al suo risveglio, aveva una ferita su questa mano. Nei tempi remoti in Germania questo fenomeno era considerato un’autentica qualità trasmessa in certe famiglie di padre in figlio, ma poi la credenza si modificò e la facoltà di diventare un Berserk assunse il senso di entrare in uno stato di grande furore, molto vicino a un’esperienza religiosa estatica. Proprio quest’ultimo aspetto è la ragione per la quale, ai nostri giorni, molte persone temono di cedere ai loro accessi di collera. Quando si è in collera si è posseduti dalla pienezza della vita; si ha il sentimento d’essere invincibile e di essere tutt’uno col proprio scopo; il dubbio o l’incertezza sono spazzati via. Ma poi è amaro svegliarsi e dover pagare il conto, e non si può evitare di sentirsi un po’ goffi. Rinunciare a esprimere un affetto violento è così difficile come rinunciare a un qualsiasi sintomo nevrotico. Un affetto violento ci solleva al di sopra di noi stessi e c’infonde un sentimento di potenza, al punto che esistono persone innamorate dei loro accessi di collera, che hanno ripugnanza a disfarsene per diventare più sobri e più ragionevoli. Si pone allora una questione di ordine etico: vi sono situazioni nelle quali è giusto cedere alla collera? La risposta è intimamente legata alla visione del mondo che è radicata in ognuno di noi. Così, dal punto di vista cristiano, in generale la collera non è considerata lecita, poiché un discepolo di Cristo dovrebbe essere caritatevole in ogni circostanza.

Ciononostante il diritto alla legittima difesa viene abitualmente consentito e l’idea fu accettata per la collettività, ad esempio nelle Crociate o quando si trattava della difesa della fede. È consentito che un popolo ingiustamente attaccato si sollevi per difendersi. Il diritto all’indignazione e alla santa collera è poi evidente quando si tratta di combattere un male collettivo come il nazismo. Ma la collera, va detto, è barbarica, porta a eccessi e può servire da pretesto a tutti gli abusi e a tutte le ingiustizie, anche le più disumane.

Si propone dunque la domanda: Chi è colui o colei che si adira? Se si tratta d’un soggetto  equilibrato che cerca la verità interiore, la sua collera sarà generalmente proporzionata alla causa che l’ha scatenata e si manifesterà al momento opportuno. Tale scelta dipende, in ultima istanza, dall’idea che noi ci facciamo di Dio. Se Dio, ai nostri occhi, è nient’altro che bontà, la scelta è chiara; se al contrario noi accettiamo il suo aspetto oscuro oltre che il suo aspetto luminoso, anche l’aggressività rivestirà un senso e se ne dedurrà che può essere lecito, seguendo l’istinto, usare le nostre unghie e i nostri denti in caso di attacco ingiusto diretto contro noi stessi o contro un altro.

Facciamo un esempio di conflitto d’ordine psicologico, e prendiamo il caso di un giovane ben educato che si sforza di comportarsi in modo ragionevole. Arriverà il momento in cui dichiarerà di essere adulto, di desiderare di uscire con una ragazza e di avere un appartamentino privato. Ecco però che sua madre non accetta i fatti e che il figlio finisce per suggerirle di andare a consultare il suo analista. Ma lei naturalmente rifiuta. Tenterà con tutti i mezzi di trattenerlo, preferendo distruggerlo piuttosto che permettergli di liberarsi di lei. Non è quindi il giovane in diritto di tener duro, perfino quando ella gli rimprovera d’esser crudele? Per ogni osservatore esterno e obiettivo, sarà chiaro che per il giovane si tratta d’una questione di vita o di morte e che in assenza di un’alternativa egli ha il diritto di mostrarsi rude.

Anche se non è necessario per lui diventare Berserk e comportarsi come un orso infuriato, qualcosa si ergerà nel più profondo della sua personalità e lo scontro diventerà inevitabile. Se le persone non hanno l’intima convinzione del diritto alla vita e se non si perviene a risvegliarlo in loro, è molto difficile aiutarli mediante un’analisi. Vi è una sorta di diritto all’autodifesa e alla controffensiva, quando si tratta di evitare di essere sgominati dall’Animus o dall’Anima negativi, o da ogni altro male che si aggira intorno a noi; colui che ne è incapace è realmente malato.

Mosè non aveva altro mezzo per liberare Israele dalla schiavitù se non invocare dal cielo i sette flagelli sull’Egitto; Cristo quando cacciò i mercanti dal tempio cedette a un’emozione. Cristo non fu “dolce come un agnello” così come si è preteso; altri testi lo confermano, come quando egli dichiara di aver portato “la spada e non la pace”, o che il peccato contro lo Spirito non ottiene perdono.

L’orso è preso da una santa collera. L’essere colpito da un affetto violento corrisponde, in linguaggio mitologico (che è anche quello dell’inconscio e dei nostri sogni), alla possessione da parte di un dio. Gli Dei della mitologia sono archetipi e gli archetipi hanno sempre sia un aspetto psichico che tende a tradursi in immagini, sia un fondamento istintivo. Ad esempio, il fondamento biologico dell’archetipo della madre è la maternità, quello dell’archetipo della congiunzione è la sessualità. Perciò si può riferire ogni dio a un campo biologico di cui è il significato o l’aspetto spirituale. Si può affermare che ogni dinamismo degli istinti ha un’immagine archetipica e che gli Dei sono dunque rappresentazioni di complessi generali. Ares-Marte è l’immagine, nella cultura classica, dell’istinto di aggressività e di autodifesa. Nel mondo animale l’autodifesa, l’aggressione e la paura dominano tutta una parte della vita, e noi non ne siamo esenti.

Ogni dio archetipico rappresenta una carica dinamica ed esplosiva relativamente autonoma e ingovernabile, così gli Dei sono sempre un po’ al di sotto o al di qua dello scopo rispetto al livello umano. I Greci stessi si mostravano colpiti dal fatto che i loro Dei si comportassero in modo così barbaro, arcaico e animale e gli Stoici tentarono con l’ausilio di argomenti filosofici di fornire una spiegazione. Gli Dei provocano formidabili esplosioni di energia là dove il dinamismo della vita si manifesta nel modo più intenso.

Facendo irruzione nella coscienza, che ha sempre la tendenza ad irrigidirsi, a diventare troppo angusta e a pietrificarsi, essi apportano il flusso della vita. Un mondo nel quale non si ammette niente di rude non corrisponde alla realtà della vita ed è qui che noi tocchiamo un problema tipicamente femminile. Più una donna è femminile, meno il suo Animus è aggressivo e più la vita la schiaccerà. Ognuno conosce probabilmente queste dolci figlie che hanno sempre fatto ciò che desideravano mamma e papà e non si sono mai sposate. Hanno curato i loro genitori fino alla loro morte per occuparsi poi dei bambini altrui. La donna di questo tipo, tutta bontà e femminilità, si lascia cancellare. Le condizioni della vita moderna rendono casi simili sempre meno frequenti, ma in passato erano numerosi.

C’era a Berlino l’espressione: Tante Einsprung (la zia pronta a correre in aiuto). In quasi tutte le famiglie ella era un’istituzione, a cui bastava telefonare ogni volta che qualcuno cadeva malato, e il cui ruolo era appunto quello di tenersi pronta al minimo richiamo. Era la vecchia zitella un po’ disprezzata da coloro che usavano e abusavano dei suoi servizi.

Perciò questo mondo materno, nel quale tutto è così amabile e delicato e dove le rose sono senza spine, ha un gran bisogno di un orso, che arriva tra i rigori dell’inverno. L’orso è naturalmente buono, si mostra dolce con le bambine, eppure quando cattura il nano non esita a ucciderlo con una sola zampata. Senza esser inutilmente aggressivo, egli sa quando è arrivato il momento di passare all’azione e di porre termine una volta per tutte a una situazione assurda. Il punto di svolta della storia si situa nel momento in cui l’orso, colpito da una giusta collera, sopprime il nano verso il quale le bambine si sono mostrate troppo tenere.

In effetti la fiaba tratta del problema dell’integrazione del lato maschile col mondo femminile. Tutta la difficoltà consiste nel farlo nel modo giusto, senza andar troppo lontano. Una donna che si sveglia dopo essere stata troppo passiva, troppo femminile, corre il rischio di mostrarsi subito troppo aggressiva. Ciò accade per il fatto che nessuno giunge a colpire il centro di un bersaglio al primo colpo, senza esservi esercitato. Ciò spiega le esasperazioni caratteristiche che  sopravvengono ogni volta che la mancanza di aggressività o un adattamento insufficiente sono sostituiti da esplosioni di violento affetto.

Se l’orso rappresenta qui una reazione equilibrata, il nano si eccita continuamente fino a essere in uno stato d’irritazione costante. L’orso semplicemente uccide il suo nemico mortale quando ne ha l’occasione, e ciò è l’opposto della debolezza vendicativa ed esasperante manifestata dal nano. In una donna, queste figure rappresentano due differenti forme di Animus: una di esse, reagendo continuamente controtempo, è irritata e irritante e provoca dappertutto e a ogni istante continue liti. Queste dispute scoppiano alla minima scintilla, come un incendio: la voce si alza o al contrario il tono si abbassa e tutti ne sono colpiti. Il nano si abbandona, inoltre, a una serie di stupide azioni: la barba s’impiglia nella fessura di un albero, poi s’ingarbuglia alla sua lenza. Se un essere  considerato molto abile non sa tagliare un albero senza incastrarvi la sua lunga barba, né afferrare un pesce senza attaccarsi lui stesso alla canna, ha quello che si merita. Da parte mia, io avrei riso e me ne sarei andata.

Il nano dà un’immagine eccellente del carattere irritante e irritato che può prendere l’Animus. Il suo comportamento riflette il modo in cui una donna, adulta e intelligente, può talvolta impegolarsi in stupide liti e discussioni. L’Animus irritato perde ogni senso dell’umorismo: si mostra ingrato e trabocca di sete di potenza. Agli occhi del nano sembra ovvio che le due adolescenti debbano tirarlo fuori dai suoi insuccessi, cosa che non gl’impedisce d’insultarle subito dopo. È uno dei tratti classici dell’Animus negativo di esigere ogni cosa partendo dalla convinzione inconfessata che tutto gli è dovuto e che è nel suo diritto imporre ad altri il suo bisogno di aiuto. Le prime suffragette adottarono inevitabilmente un comportamento eccessivo: erano ipermaschili ed egoiste nelle loro rivendicazioni. Il buon equilibrio istintivo non si raggiunge direttamente, ma passando per la via traversa di un atteggiamento ipercompensativo.

Per altro verso, se osserviamo il ruolo dei nani nelle fiabe, noteremo che è quasi sempre positivo: lavorano nelle miniere e ammassano tesori, sono orafi che fabbricano bicchieri d’oro e altri oggetti preziosi, o sono abili tessitori e conoscono una quantità di arti utili. Nella mitologia tedesca uno dei nani celebri si chiama Allwis, Satutto. Nella mitologia greca e cretese i Cabiri, compagni della Grande Madre, sono anche fabbri e artigiani. I nani sono in stretto rapporto col mondo femminile e figurano più spesso nei sogni delle donne che in quelli degli uomini. Essi rappresentano spesso la prima intuizione creatrice proveniente dall’inconscio e ancora seminascosta nel seno della natura.

Quando un nano, per definizione abile, si rivela così maldestro come quello di questa fiaba, rappresenta la negazione di sé stesso e non dovrà esistere. Egli rappresenta cioè lo stato di contraddizione con sé stessi e d’irritazione provocato da una creatività non vissuta. Quando questo tipo di Animus s’impadronisce di una donna, è generalmente il segno che ella possiede doti creative che non è ancora riuscita a mettere in opera. L’eccesso di libido creativa non utilizzata consapevolmente si trasforma in sentimenti di frustrazione e in cattivo umore, crea complicazioni e rischia di giocare brutti tiri. Trovandosi in un simile stato, una donna non ne è cosciente e non capisce ciò che la motiva, e rischia di avere un’azione distruttiva su coloro che la circondano. Il rimedio consiste nel realizzare un’attività creativa, così che il nano possa compiere ciò per cui è dotato. Non si tratta necessariamente di doti eccezionali. Si tratta invece di capire che cosa l’inconscio vuole realizzare.

Se la coscienza della donna non viene in aiuto del suo Animus permettendogli di esprimersi, questo cerca da sé il proprio cammino e interferisce nella sua vita. Occorre riconoscere le richieste dell’inconscio.

In una struttura matriarcale come quella dell’inizio di questa fiaba, l’orso maschio rappresenta evidentemente un aspetto dell’Animus che si oppone al nano. Se in un contesto maschile esso può rappresentare lo stato Berserk e la collera fredda, nel contesto femminile quale è quello di questa fiaba esso rappresenta l’istinto virile aggressivo vissuto correttamente: esso sa per quale motivo agisce e lo fa senza le esitazioni o la debolezza dovute all’incertezza. Non occorre inscenare un’inutile premura: la collera è stata integrata. Trasposto sul piano psicologico, ciò significa che nelle fanciulle un atteggiamento più adulto è maturato, e che esse sapranno ormai condurre la loro vita con sufficiente sicurezza e fiducia in sé stesse per trovare la loro felicità; una sana reazione istintiva ha cancellato in loro gli umori infantili negativi, e le renderà perciò capaci d’incontrare il principe.

 

da “Il femminile nella fiaba”

di Marie-Louise von Franz